Vi vediamo mentre preparate le valigie per le vacanze e dovete decidere se lasciare a casa i calzini o un libro in più. Sì, sappiamo anche che esistono gli e-book, ma volete mettere la copertina sbiadita dal sole, le pagine accartocciate dalla salsedine, la sabbia nella sovraccoperta…? Potete dire davvero di aver letto un libro, se non rimane una traccia di voi sulle pagine? Ci pare, quindi, piuttosto scontata la scelta: è ovvio che avete intenzione di smaltire quella pila di volumi che prende polvere da mesi sul comodino, con buona pace dei calzini.
Ci dispiace dirvelo, ma se i libri in attesa sono più di dieci, avete un caso grave di “comodinite”, con annesso senso di colpa da manuale.
[«COMODINITE: nevrosi dell’accumulo»]
Come avrete capito, l’ultimo articolo della stagione ci fa ritrovare la penna intelligente, e impertinente, di Marco Rossari, già ospite plurirecensito [«RECENSIONE: diagnosi erronea di un dottore amico»] di questa rubrica, che torna questa volta con il Piccolo dizionario delle malattie letterarie.
Preparate i sorrisi e l’autoironia: siamo certe che vi serviranno.
Il piccolo dizionario era già stato pubblicato nel 2016 da Italo Svevo Edizioni, ma come tutti i dizionari che si rispettino, è stato rivisto e ampliato in una nuova edizione per Einaudi. Ma di che cosa si tratta esattamente?
Potremmo definirlo come un bugiardino in forma di dizionario da consultare in caso si contragga una delle malattie immaginarie, che spesso colpiscono chi ama i libri fin dalla più tenera età. Rossari descrive, infatti, la letteratura come una malattia «che si contrae nell’infanzia, quando il corpo è più gracile e indifeso (per non parlare della mente, vulnerabile e suscettibile agli stimoli). Tu sei lì ancora imberbe, ed ecco che un padre o una madre o un amico o magari addirittura il pediatra ti allunga un libro per distrarti e superare una brutta influenza. Salgari, Dumas. […] La scarlattina sarà anche passata, ma un altro virus è entrato nel tuo corpo. Non sei più lo stesso, vuoi leggere ancora, cerchi un altro farmaco (ma phàrmakon, si sa, voleva dire anche «veleno»)».
Passando da malattie d’autore come lo «GNOMMERO DI GADDA: nodo alla lingua di origine nevrotica che impedisce di esprimersi chiaramente» a quelle di finzione «SINDROME DI JO MARCH: forma di identificazione adolescenziale femminile che porta a conformismo patologico», si arriva alle deformazioni professionali vere e proprie, come il «BOOKTOUR: pandemia catastrofica di presentazioni nelle province remote. «Quest’autunno ci aspetta un booktour». «Poi cosa, la morte?».
La letteratura non colpisce soltanto chi scrive, ma anche chi legge. Alzi la mano chi non ha mai sofferto di «BIBLIOFILIA: forma di perversione erotica che spinge il paziente a trarre piacere dall’accumulo di polvere sopra libri intonsi». Oppure, conoscete di certo qualcuno che soffre di «ADELPHOIDI: infiammazione del nervo diffusa nel corpo sociale piccoloborghese che spinge ad arredare con libri color pastello per sentirsi colti». Se non lo conoscete, guardate la vostra libreria, potreste essere voi.
Come se ne esce? Come tutte le dipendenze, è un percorso difficile, talvolta si impara a conviverci, ma spesso non lascia scampo. La prevenzione è fondamentale, per questo c’è chi ricorre alla «BIBLIOTECA: luogo di autoisolamento per soggetti a rischio, quarantena volontaria». Esistono poi alcuni palliativi come il «CLUB DEL LIBRO: gruppo di auto-aiuto», ma lasciano il tempo che trovano. Prima o poi arriva il momento in cui chiunque abbia l’abitudine di maneggiare libri, per lavoro o per diletto, pensa di cimentarsi nell’impresa di scrivere. Si parte da una poesia, è il primo passo verso gli inferi, ma ci si può ancora salvare, soprattutto se non sortisce l’effetto sperato nella persona destinataria. Il guaio grosso è quando si punta al romanzo. Lì è tutto perduto e si rischia anche di finire in brutti giri, come quello dell’«AUTOPUBBLICAZIONE: medicamento da ciarlatani».
Potremmo andare avanti ore a snocciolare definizioni, ma questa recensione rischierebbe di diventare più lunga del libro e, soprattutto, non ci sarebbe più gusto a sfogliarlo. Vi invitiamo, invece, a procurarvene una copia e a tenerla sul comodino, insieme agli altri tomi che prendono polvere. Nelle giornate no, oppure quando vi state prendendo troppo sul serio, apritelo a caso e riceverete la sana dose di leggerezza che vi serve. Vi sfidiamo ad arrivare alla quarta definizione senza ridere.
Prima di salutarci, però, non possiamo non citare l’Appendic(it)e, la parte del libro dedicata ai patiti di punteggiatura, con sezioni dedicate a ciascun segno di interpunzione. Tra queste, ci ha particolarmente commosso quella sul punto e virgola: «Abbandonato, negletto, vessato: dove metterlo, che farsene? […] Androgino in via d’estinzione, elegantissimo segno a metà strada che serve e non serve, proprio per questo tanto più tenero. […] Nella sua ambiguità è invece tratto sublime, ibrido, insolito». Non è venuta voglia anche a voi di abbracciare il punto e virgola e di usarlo con maggiore frequenza, possibilmente non a casaccio?
Ecco, ora abbiamo proprio concluso. Sperando che anche quest’anno le letture che vi abbiamo proposto siano state utili e stimolanti, vi salutiamo e vi diamo appuntamento a settembre con #traduzioneacolazione.
Buone letture e buone vacanze!