“La traduzione è un po’ come il paguro Bernardo, sloggia l’originale abitatore e s’appropria della sua casa-conchiglia”
Con questa simpatica similitudine che ci ha strappato un sorriso, ci accingiamo a servirvi la #traduzioneacolazione di oggi. Come avrete capito dal titolo, torniamo a parlare di Fabrizio De André in veste di traduttore, e lo facciamo per due motivi: il primo è che il 18 febbraio saranno trascorsi 84 anni dalla sua nascita; il secondo è che nel gennaio del 2023, nell’articolo Fabrizio De André e la traduzione, vi avevamo lasciato con queste parole:
Ed è proprio da qui che vorremmo riprendere il filo del discorso, perché se in passato ci siamo concentrati sulle traduzioni faberiane di Leonard Cohen, oggi vorremmo dedicarci a quelle di Bob Dylan.
Veniamo allora al libro che abbiamo deciso di consigliarvi, Le parole che volevo ascoltare – De André traduce Cohen e Dylan scritto da Andrea Podestà e Manuela D’Auria. Nella prefazione, il cantautore Max Manfredi rilancia un’annosa questione: “È possibile che la traduzione di una canzone sia fedele e brutta? No, perché non può nemmeno rifugiarsi nella prosa; deve mantenere un andamento metrico preciso. Può essere bella o brutta, ma fedele, mai.” E se c’è un esempio che avvalora questa affermazione è Via della povertà, trasposizione italiana di Desolation Row.
Dylan è bello così com’è
De André rispettava molto Dylan e riteneva che renderlo in italiano fosse quasi impossibile, perché “l’amalgama fonema e musica non sarebbe stato identico. Sicuramente tante cose scritte in rima che suonano talmente bene in Dylan non avrebbero potuto essere scritte in rima in italiano. […] Dylan è bello così com’è.” Tuttavia, proprio per l’ammirazione che provava per lui, volle lo stesso cimentarsi in una traduzione che, come Podestà non manca di rimarcare, avrebbe messo a dura prova anche il traduttore più navigato. Faber era “troppo intrigato dalla possibilità di regalare al suo pubblico uno scorcio di realtà dall’incredibile potere comunicativo”. La realtà in questione è una sorta di carrozzone in cui si susseguono immagini surreali e criptiche difficili da interpretare persino per i connazionali del cantautore statunitense. Per dare a Cesare quel che è di Cesare, va detto che fu Francesco De Gregori a tradurre Desolation Row per primo e a proporla a De André, il quale intervenne cambiandola a proprio piacimento in alcuni punti. Ad oggi sembra che non sia possibile attribuire con certezza all’uno o all’altro le varie modifiche.
L’adattamento di Desolation Row
Podestà e D’Auria specificano che nel caso di Via della povertà non si può parlare di “traduzione” quanto di “adattamento”, perché in alcune strofe le differenze con il testo originale sono sostanziali, a cominciare dalla prima:
Come possiamo vedere, De André ha eliminato alcune immagini (indicate in rosso) e ne ha mantenute altre cambiando loro collocazione (indicate in grassetto): spariscono ad esempio i passaporti dipinti di marrone e il riferimento al circo che è arrivato in città, mentre rimangono il salone di bellezza e i marinai, ai quali, nella versione di De André, è possibile rivolgere una domanda; rimangono le cartoline dell’impiccagione, che vengono vendute in entrambe le versioni ma che in italiano hanno un costo ben preciso; rimane anche il poliziotto cieco: Dylan lo descrive con una mano legata al funambolo e una infilata in tasca, mentre De André lo colloca dietro la stazione e lo equipara a un veggente che però ti legge la “sfortuna”. Molto efficace a nostro parere la resa di “And the riot squad they’re restless / They need somewhere to go”, che diventa “e le forze dell’ordine irrequiete / cercano qualcosa che non va”. Non è proprio la stessa cosa, ma secondo noi il senso c’è tutto: quell’“hanno bisogno di andare da qualche parte” sa tanto di pretesto per “cercare qualcosa che non va”.
Dei vari personaggi reali e della letteratura inseriti da Dylan, molti vengono ripresi da De André, anche se alcuni cambiano sembianze o atteggiamento, come Ofelia, che in inglese “sbircia” mentre in italiano “cammina avanti e indietro”:
O come Einstein, che Dylan fa travestire da Robin Hood e De André da ubriacone:
Curioso, invece, come il Gobbo di Notre-Dame, l’emarginato per eccellenza (figura tanto cara al cantautore genovese) subisca, per ironia della sorte, un’ulteriore discriminazione, visto che nella versione italiana non è presente.
‘stu deserto (messicano) finirà
Molto interessante anche un’altra trasposizione, Avventura a Durango, omaggio a Romance in Durango, brano presente nell’album Desire del 1976. Aneddoto vuole che la canzone di Dylan, tradotta in coppia con il cantautore veronese Massimo Bubola, abbia “rubato” il posto a Born to run di Springsteen, proposta dal produttore di De André e rifiutata da Bubola perché “era un veloce uragano di parole in inglese, che rendeva quasi impossibile una traduzione decente in italiano”. Senza contare che si riferiva a un contesto, quello delle grandi periferie, in cui né lui né De André si rispecchiavano. E poi come avrebbe potuto, uno che non aveva mai corso in vita propria, cantare: “Bambina, siamo nati per correre!”?
Senza svelarvi troppo dell’adattamento del brano, vi riportiamo l’aspetto secondo noi più interessante. Prima, però, un minimo di contesto: i due protagonisti sono una coppia in fuga verso la città messicana di Durango dopo che lui, un bandito, ha ucciso un uomo. Il brano è disseminato di riferimenti culturospecifici, e nel ritornello Dylan fa parlare il bandito in spagnolo. Tutto normale, per un pubblico statunitense, ma quando Romance in Durango diventa Avventura a Durango che cosa succede? Succede che i due traduttori fanno un miscuglio: da un lato mantengono “il contesto spaziale – Durango, il rodeo, il fandango, la tequila e Pancho Villa […]” e dall’altro “[…] giungono, poi, a una scelta […] di rottura dall’originale.” Come? Facendo parlare il bandito in… napoletano!
Sappiamo perfettamente che De André amava i dialetti in generale e quello partenopeo in particolare, ed è chiaro che il risultato è straniante, ma secondo Bubola “se gli americani hanno familiarità con lo spagnolo per ragioni di vicinanza o immigrazione, in Italia il ritornello in spagnolo non avrebbe avuto senso, in napoletano invece sì.” E allora noi vi lasciamo con una domanda: siete d’accordo con questa affermazione, considerando appunto che i vari riferimenti alla cultura messicana sono stati mantenuti?