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Fra le righe – Il piacere di tradurre

Per la #traduzioneacolazione di oggi vi serviamo Fra le righe – Il piacere di tradurre, un titolo in cui Silvia Pareschi veste i panni di autrice, edito da Laterza e uscito a settembre 2024.

Una delle più note traduttrici di narrativa angloamericana contemporanea ci invita a esplorare il meraviglioso laboratorio della traduzione, in cui le regole incontrano la creatività e la grammatica si mescola con l’esperienza.

In queste 137 pagine da leggere tutte d’un fiato, Silvia Pareschi ci parla del proprio esordio e di come sia poi arrivata a essere la (porta)voce italiana di autori del calibro di Ernest Hemingway, Jonathan Franzen, Don DeLillo, Cormac McCarthy e Zadie Smith, per citarne alcuni.

“Questo libro nasce dal desiderio di condividere la mia passione e di raccontare la mia esperienza. Perché questo è un mestiere che non si può districare dalla vita […].”

Il racconto in prima persona risulta sicuramente avvincente per chi traduce, perché può rispecchiarsi in pieno nelle parole dell’autrice, che ci conduce attraverso le varie fasi della lavorazione, dalla prima stesura fino a quella fondamentale della rilettura, in cui si deve “limare il testo eliminando tutto ciò che non serve.”

Pareschi ci dice anche che “per trovare la parola che ci serve non basta affidarsi al dizionario, ma occorre andare a rovistare nel baule delle nostre conoscenze, dei nostri ricordi, della nostra curiosità. Anche per questo la capacità di tradurre si affina con gli anni: conta l’esperienza lavorativa, certo, ma è altrettanto importante aver vissuto, viaggiato, osservato, aver fatto esperienza del mondo.”

L’autrice ci mette, poi, in guardia dai rischi che si corrono se “il confine tra una lingua e l’altra si sfoca. […] Una delle conseguenze di quella smarginatura, nella traduzione, è il subdolo calco: l’edificio collassato, la malattia severa, la redenzione dei punti del supermercato.” Invece “la linea di demarcazione tra le due lingue deve rimanere netta, e chi traduce deve diventare il tramite, il collegamento tra l’una e l’altra.”

Interessante è anche la riflessione su quali siano “i parametri per giudicare la qualità di una traduzione […]: l’aderenza al registro e al tono dell’originale, la fluidità dello stile, l’assenza di calchi… […] La traduzione non si giudica dalla presenza di qualche errore, perché anche i più bravi sbagliano.”

Silvia Pareschi ha avuto l’onore e l’onere di esordire con un romanzo come Le correzioni di Jonathan Franzen. “Quando mi chiedono come ho cominciato a tradurre, rispondo sempre che sono stata molto fortunata. Doppiamente fortunata, prima perché ho trovato sulla mia strada una maestra generosa come Anna [N.d.R. Nadotti], e poi perché sono stata presa a bottega da Marisa [N.d.R. Caramella, traduttrice ed editor Einaudi] che mi ha insegnato molto di quello che so […].”

Dal racconto dell’autrice scopriamo un risvolto entusiasmante del tradurre letteratura, che è il dialogo con gli autori, laddove possibile. “Le parole e le frasi di Franzen sono ad alto peso specifico, aggregati di significato che la traduttrice deve disgregare, analizzare in tutte le loro componenti e poi riaggregare nella propria lingua.”

Pareschi elenca una serie di questioni che ha sottoposto all’autore:

“L’ultima email, datata 8 gennaio 2002, ha come oggetto ‘I love Chip, too’.

Qui si trova una domanda che dimostra cosa succede quando una parola contiene in sé tanti significati – immagini, sentimenti, affetti, storie, tutta la sotterranea profondità che fa vibrare una lingua – e la traduttrice deve con rammarico abbandonarne qualcuno, perché nella sua lingua non esiste una parola dotata della stessa pregnanza.

Il problema riguardava la frase

A depression in the heartland had shriveled him the way it had shriveled her mother

e al riguardo scrivevamo: “We must choose between’the region of the heart’ or ‘the heart of the country’ (real pity!)”. Franzen rispondeva così: “Ack! It would drive me crazy to be a translator! I guess the primary meaning is ‘heart of the country’, but it’s a shame to lose the other meaning. Sorry about this!”.”

L’autrice passa, poi, in rassegna altri punti salienti del mestiere di chi traduce: dall’importanza delle consulenze al modo in cui si affrontano gli errori che si incontrano nell’originale.

Sono tante ed eterogenee le difficoltà e altrettante le domande che un testo pone ‘fra le righe’, appunto. Silvia Pareschi ne sviscera alcune, come l’approccio ai dialetti, la questione delle lingue ibride (yinglish e spanglish, ad esempio), il turpiloquio e la resa dei giochi di parole. A questo proposito è interessante notare come in certi casi la traduzione, invece di perdere, guadagni qualcosa perché “chi traduce un testo in un’altra lingua lo osserva da un’angolazione diversa rispetto a quella dell’autore che lo ha scritto nella propria lingua madre, e a volte questo consente di portare alla superficie certi aspetti del testo di cui l’autore stesso era inconsapevole. Altre volte, in casi particolarmente fortunati, ci si può imbattere in soluzioni inattese che in qualche modo – a livello di corrispondenze lessicali o di echi interni al testo – arricchiscono l’originale.” Perciò “Gained in translation.”

Naturalmente, ogni tema sviscerato è corredato di esempi succulenti tratti dall’esperienza diretta dell’autrice, e puntualmente ci ritroviamo a ragionare insieme a lei sulle possibili soluzioni e a stupirci di quelle adottate nella resa finale.

Silvia Pareschi risponde anche alla domanda: “Perché ritradurre i classici?”, e la nostra mente vola subito al Circolo PickWiP in cui abbiamo ospitato Marco Rossari. Sicuramente un’intervista da recuperare, per chi se la fosse persa. La trovate qui.

Il libro si conclude con una riflessione sulla traduzione letteraria nell’epoca dell’intelligenza artificiale. “Un’opera letteraria è l’espressione di una voce, e la voce si esprime attraverso lo stile, e lo stile è fatto non solo di registri e di ritmi, ma anche di allusioni, echi, ironie, evocazioni, ammiccamenti, metafore, e soprattutto di intenzione. Come potrà mai una macchina capire un’intenzione? […] In un mondo in cui i testi vengono prodotti in pochi secondi, ma non sono necessariamente comprensibili o veritieri, il rischio è che i lavoratori umani vengano relegati al ruolo di redattori all’ingrosso e di garanti della qualità. La probabile conseguenza sarebbe un’erosione delle competenze necessarie a comporre un testo in autonomia, senza l’aiuto di una macchina. […] Non solo tradurremo le lingue senza conoscerle, ma finiremo anche per scrivere senza pensare.”

La nostra carrellata sui tantissimi contenuti di questo libro termina qui, ma vi invitiamo a leggerlo perché è un concentrato di aneddoti e casi di studio davvero intriganti.