“Caro Sig. Riedt,
La Sua lettera del 13/08 mi ha riempito di gioia e di gratitudine. Già dalla Sua traduzione avevo capito che Lei non era, per così dire, un avvocato d’ufficio, ma un uomo vivo, e vicino alle cose che mi stanno a cuore; quanto Ella mi ha scritto me lo conferma. Sarei felice di conoscerLa di persona: anzi, è forse Lei la persona che da anni speravo di incontrare.”
Quando ho visto questa nuova uscita di Einaudi, ho pensato fosse proprio il libro per me perché unisce tre delle mie più grandi passioni del momento: il tedesco, la letteratura italiana e, chiaramente, la traduzione. Il carteggio con Heinz Riedt di Primo Levi, a cura di Martina Mengoni, raccoglie 132 lettere che Primo Levi e Heinz Riedt si sono scambiati tra il 1959 e il 1968, sebbene la corrispondenza in realtà sia proseguita fino agli anni ’80. Ma chi è Heinz Riedt? È il traduttore tedesco a cui nel 1959 fu affidata la traduzione di Se questo è uomo dalla casa editrice Fischer, una tra le più importanti della Germania Ovest, e successivamente di Storie naturali. Riedt è un tedesco antinazista che muove i primi passi nel mondo della traduzione in un contesto di guerra, il che lo aiuterà certamente ad affrontare il testo di Levi, e che inizia a produrre le sue prime traduzioni letterarie con lo pseudonimo Pan Rova. Se questo è un uomo sarà il primo libro a uscire con il suo nome e cognome.
Riedt e Levi sono due uomini uguali e diversi allo stesso tempo. La storia del primo è un intrico di luoghi e, di conseguenza, di lingue, mentre il secondo trascorre tutta la sua vita a Torino, a eccezione dell’anno e mezzo di permanenza ad Auschwitz. Sono coetanei, due intellettuali borghesi che condividono la stessa formazione politica e la stessa passione per la letteratura e la lingua.
“Il carteggio tra Levi e Riedt è anche una storia delle due Europe degli anni Sessanta, raccontata da un punto di vista singolare e personale, ma almeno in parte esemplare. Un uomo con un passato familiare antifascista e cosmopolita che ha fatto il partigiano in Italia e che dopo la guerra convintamente si trasferisce a Berlino Est per lavorare nell’industria editoriale. Un raffinato traduttore di autori cinque e settecenteschi che vuole farli conoscere nella Germania socialista. Un intellettuale che non ha agganci col partito e che vive da freelance. Una persona che si accorge delle assurdità progressive a cui è sottoposta la vita culturale del suo paese. Dall’altra parte, c’è un interlocutore a cui si può parlare di privazione di libertà e di regime di terrore stando certi che saprà cosa s’intende.”
Ma perché questo scambio di lettere è così interessante? Secondo me lo è su tre livelli. Prima di tutto lo è per la riflessione sulla traduzione, sia da un punto di vista concettuale che, soprattutto, tecnico. Come tradurre un termine, come interpretare una frase poco chiara, come addomesticare un elemento culturospecifico per renderlo fruibile a un pubblico tedesco senza modificare troppo il testo. In secondo luogo, lo è per il rapporto umano che si è instaurato tra autore e traduttore. Devo dire la verità, leggere questo testo in un momento in cui il mondo della traduzione sembra sempre più dominato da numeri e algoritmi, è stata una carezza sul cuore. Due uomini che leggono e rileggono le proprie parole, che si aiutano per valorizzare l’uno il lavoro dell’altro e accettano di mettersi in discussione continuamente. Infine, le lettere stesse sono molto interessanti da un punto di vista linguistico perché per quanto Riedt si sforzi e scriva in un ottimo italiano, nelle sue missive fanno spesso capolino dei calchi dal tedesco, lessicali ma prevalentemente sintattici. Un esempio è la frase “Sarei felicissimo poterLa conoscere una volta di persona, com’è anche mio desiderio rivedere e riparlare i miei amici in Italia…” dove mancano alcune preposizioni, forse uno degli aspetti più difficili da gestire in una lingua straniera. O ancora “Speriamo mi sia andato bene” per dire “spero di essermela cavata”. Concludo con un esempio di uso delle virgole ricalcato sulla (rigida) struttura tedesca “Non Le posso dire, quanto sarei contento di poterLa incontrare!”.
Come funziona la collaborazione tra Levi e Riedt per la traduzione di Se questo è un uomo (e successivamente per Storie naturali)? Riedt ci teneva molto a fare un buon lavoro ed è lui stesso a chiedere a Levi di potergli sottoporre i suoi “points douteux”. Ritiene infatti che la pubblicazione di questo testo sia importante e necessaria e si auspica che possa essere motivo di riflessione umana. Levi accoglie con piacere questo desiderio e, invece di riflettere solo sui dubbi, chiede di ricevere la traduzione integrale dei vari capitoli, corredata di eventuali commenti, a cui l’autore stesso risponderà chiarendo i dubbi e sottoponendone eventualmente di nuovi.
Prima parte: 1959-1961. La traduzione di Se questo è un uomo.
La lavorazione di Se questo è un uomo (che in tedesco diventerà Ist das ein Mensch?) può essere considerata una sorta di “traduzione al contrario”. Il primo traduttore di questo libro è stato infatti il suo autore che, per scriverlo, ha dovuto trovare dei traducenti italiani per i termini utilizzati nel cosiddetto gergo del campo, fatto prevalentemente di lessico tedesco, contaminato da tutte le altre lingue che si parlavano nel Lager. I due si confrontano su dubbi di ogni tipo, ad esempio su quale sfumatura prediligere nella traduzione di un verbo (“mucchio di cadaveri rovinava fuori dalla fossa”; forse nel senso di “straripava”?) o sul significato di termini tecnici (Riedt non riusciva a interpretare il significato di una frase perché credeva che il “foratappi” fosse un cavatappi, mentre Levi gli spiega che si tratta di un utensile usato nei laboratori per praticare fori in vari materiali). Nello specifico, però, Riedt chiede spesso a Levi di aiutarlo a tradurre correttamente in tedesco i termini che venivano usati nel campo, per i quali conoscere la lingua non era sufficiente poiché venivano usati esclusivamente in quei luoghi ed erano conosciuti solo da chi aveva vissuto quell’esperienza.
Riedt: Le “selezioni” come venivano chiamate in tedesco? È un problema di traduzione insolubile per uno che non abbia avuto esperienza di Lager.
Levi: “Selezioni”: forse sotto l’influsso del polacco selekcja, si dicevano generalmente Selektionen; era però anche usato il termine Aussonderung.
In alcuni casi è lo stesso Levi a far presente a Riedt che i termini italiani non sono la traduzione esatta dal tedesco e, di conseguenza, la sua traduzione non risponde fedelmente alla realtà.
Furier: laggiù si diceva Blockschreiber, credo sia preferibile in quanto il termine “furiere” da me usato non è che una approssimativa versione in italiano del citato vocabolo tedesco.
Seconda parte: 1962-1966.
A pubblicazione avvenuta, Levi e Riedt continueranno a scriversi aggiornandosi sui loro progetti lavorativi e di vita, sulla situazione politica in Europa e sul mondo dell’editoria. Cercheranno in tutti i modi di collaborare per la traduzione di La tregua, ma la casa editrice tedesca affiderà l’incarico a un’altra persona del cui lavoro Levi non sarà affatto contento. Queste pagine strappano anche spesso un sorriso perché nessuno dei due aveva peli sulla lingua! Riedt ne ha un po’ per tutti. Ad esempio, di Calvino scrive: “[…] ho dovuto tradurre il Marcovaldo del Calvino (non mi piace; le intenzioni non sono realizzate; lo stile non vale niente) […]”. Mentre su Gadda: “Quei racconti (per modo di dire racconti, come Lei sa) che ho tradotto, sono tratti da diversi suoi libri, e per me è stato più che altro un esercizio stilistico, cioè l’eterno problema di avvicinarsi fino al limite del possibile al “parlato” dell’autore, pur facendo opera d’arte (o d’artificio, se preferisce) assolutamente tedesca. Ma non ho voglia né intenzione di occuparmi ancora una volta di Gadda”.
Terza parte: 1967-1968. La traduzione di Storie naturali.
Nell’ultima parte Levi e Riedt tornano finalmente a collaborare e riprende lo scambio di lettere piene di dubbi e pareri sulla traduzione. Il libro che Riedt è riuscito a farsi assegnare è Storie naturali, una raccolta di racconti fantascientifici che Levi scrive con lo pseudonimo di Damiano Malabaila. I dubbi, questa volta, sono di natura strettamente tecnica. Qui l’autore fa sfoggio di tutte le sue conoscenze nel campo della chimica, di cui Riedt non era particolarmente pratico, e usa degli arguti giochi di parole che il traduttore deve riuscire a sciogliere nel modo migliore possibile. Vi sono, ad esempio, lettere piene di elenchi di termini tecnici che Riedt ignora e di cui chiede il traducente tedesco o una spiegazione: smalti gliceroaftalici, radicali grassi, clinamen, becher a beccuccio, incineratore, 4-4’-diamminospirano. D’altronde le fonti da cui trarre informazioni erano ben più limitate, al tempo, e come entrambi fanno notare, spesso i dizionari non erano soddisfacenti.
Si discute anche di aspetti culturospecifici, per i quali i due colleghi scelgono di adottare una strategia di addomesticamento del testo.
Riedt: “invitavamo… di assistere ai suoi esami”. In Germania non si danno esami in questo senso nelle scuole, ma si fanno diversi lavori scritti in classe ed in comune. Cambiamo allora? E come?
O ancora:
“Esattori delle tasse” non esistono in Germania. Possiamo farne a meno?
Per la traduzione di questo testo entrerà in gioco anche un terzo elemento che renderà la collaborazione tra Levi e Riedt un po’ meno armonica, ovvero la casa editrice che nella persona del revisore metterà un po’ i bastoni tra le ruote a questo duo ormai perfettamente collaudato.
In queste già fin troppe righe è impossibile descrivere la bellezza del testo che ho letto, di tutte le porte che apre sul mondo e di tutti gli spunti di riflessione che offre. Si parla di traduzione, sia tecnica che letteraria, di lingua, amore e rispetto per la lingua, di rapporti umani, di lavoro, collaborazione, confronto, amicizia, denaro, è abitato da persone, da caratteri, dalla Storia e da storie. Per me è stata veramente una boccata d’aria fresca e un piccolo lumicino di speranza si è riacceso sull’importanza della traduzione umana.