Se amate la traduzione, la filosofia, il tedesco e di nuovo la filosofia, Il compito del traduttore di Walter Benjamin fa decisamente per voi. Attenzione, però, non è una letturina per conciliare il sonno la sera, ma richiede attenzione, ascolto e approfondimento. Pur non essendo esperta di filosofia, ho scelto di mettermi alla prova con questo testo perché ogni tanto ho bisogno di ricordarmi perché traduciamo e l’importanza di questa arte. Il lavoro di chi traduce, che abbia la partita IVA o che sia un’agenzia, talvolta viene spogliato del suo vestito più prezioso e diventa una corsa contro il tempo, un’operazione meccanica e abitudinaria, un obbedire a delle linee guida imposte dai clienti, il che non è sbagliato, è la vita. Ma oltre a questa dimensione concreta non dimentichiamo che ne esiste una più profonda, ormai (fortunatamente) radicata dentro di noi, che ogni tanto dobbiamo scendere a salutare.
Quella pubblicata da Mimesis Edizioni nella collana Minima Volti è una nuova edizione del testo di Benjamin, curata e tradotta da Maria Teresa Costa ed è composta da un’introduzione della curatrice, dal testo di Benjamin (traduzione con originale in tedesco a fronte) e da un commento interlineare all’opera. Costa ha deciso di ritradurre “Il compito del traduttore”, già disponibile nella versione italiana di Renato Solmi, adottando un approccio che non vuole snaturare il testo originale rendendolo più comprensibile, ma intende al contrario mostrarne tutte le complessità.
Walter Benjamin fu un filosofo, saggista e critico letterario tedesco di famiglia ebraica, nato nel 1892 e morto suicida nel 1940 per paura di essere catturato dalla Gestapo. Si laureò in filosofia con una tesi sul concetto di critica d’arte nel romanticismo tedesco e iniziò a scrivere saggi su argomenti vari. L’opera critica di Benjamin è estremamente frammentaria e in un primo momento, influenzata dalla sua attività di traduttore, si concentra prevalentemente sui linguaggi. Nel 1916 elabora l’idea di una pura lingua divina, che si contrappone alla molteplicità dei linguaggi umani e, come vedremo, il compito del traduttore secondo Benjamin è strettamente correlato a questo concetto. La traduzione riveste un ruolo centrale nella vita di Benjamin, affrontata sotto molteplici punti di vista: riflessioni teoriche, recensioni di traduzioni elaborate da altri, pratica della traduzione dal tedesco al francese e auto-traduzione di alcuni dei propri saggi.
Maria Teresa Costa è dottore di ricerca in filosofia e attualmente lavora a Berlino. È specialista del pensiero di Walter Benjamin, ha scritto numerose opere in italiano, inglese e tedesco ed è anche attiva come traduttrice letteraria dal tedesco.
Ma veniamo ora al libro, di cui non ho intenzione di darvi una lettura completa. Mi soffermerò solo su alcuni degli aspetti che mi hanno maggiormente colpita, nella speranza che decidiate di affrontare l’opera nella sua interezza per ricreare il quadro completo.
Benjamin scrisse Die Aufgabe des Übersetzers nel 1921 e lo pubblicò nel 1923 in apertura alla sua traduzione in tedesco dei Tableaux parisiens di Baudelaire. L’autore riflette sulla traduzione come processo e rivede in una chiave completamente nuova i concetti che accomunano le teorie della traduzione: libertà vs fedeltà, traduzione source-oriented e target-oriented, somiglianza, significato vs significante.
Ho deciso. Attingendo alle parole di Costa vi spoilero subito il finale. La figura del traduttore che emerge dallo scritto di Benjamin è quella di una persona paziente (ahia) che aspetta le parole, si mette all’ascolto della loro flebile eco, senza volerla prevaricare. Non ha paura di arrivare troppo tardi perché sa che le lingue sono vive ed è disposto a uscire mutato dall’incontro con il testo originale e la lingua straniera. La pratica della traduzione è dunque assimilabile a uno “spaesamento che rimpatria”, un’immersione in acque condivise da cui non si può che uscire cambiati. In tale contesto, il traduttore non è una figura passiva in balìa delle onde, ma prende parte al processo formativo nel tentativo di potenziare la lingua. Il compito del traduttore non è orientato al testo di partenza o a quello di arrivo né tantomeno al suo fruitore, proprio come leggiamo sulla copertina del libro. Il traduttore si rivolge allo “spazio plurale di comunanza tra le lingue”, il che ci obbliga a rivedere i concetti di libertà, fedeltà e letteralità portati avanti dalle teorie della traduzione. La traduzione gioca in uno spazio simile a quello della filosofia, uno spazio interstiziale “tra le righe”.
Approfondiamo alcuni di questi concetti, il che ci porterà a riflettere sulle parole, sul mondo che si cela dietro un suffisso del tedesco, una semplice preposizione o un verbo.
La temporalità della traduzione (inspo: Romanticismo tedesco)
“Nelle traduzioni la vita dell’originale raggiunge, in un continuo rinnovamento, il suo ultimo e più pieno dispiegamento.”
Come annunciato, la traduzione giunge sempre dopo l’originale e il rapporto che lega i due testi è un rapporto di vita (Zusammenhang des Lebens) o, più precisamente, di sopravvivenza (Überleben). Il termine Zusammenhang ci riporta proprio a quell’idea di spazio del “tra” che può essere solo vissuto insieme, come spazio comune di mescolanza. Per descrivere il concetto di sopravvivenza l’autore fa uso di due termini. Il più comune e meno forte è Fortleben, che indica un proseguimento, mentre quello più forte, usato solo una volta è appunto Überleben, che indica un accrescimento, qualcosa che va oltre, entrando in un regno diverso. Chi di voi conosce il tedesco avrà già notato che i termini Überleben e Übersetzung (traduzione) sono strettamente legati tra loro. Creando questo nesso tra traduzione e vita, Benjamin tenta di abbattere una categoria filosofica, che è quella della soggettività. Come riassume bene Costa nel commento in calce al libro, “Le lingue non sono solo più longeve dell’uomo, ma anche più plasmabili e capaci di metamorfosi. Alla mortalità di autore e lettore si oppone un’eccedenza di vita, che prende il nome appunto di sopravvivenza e destina le opere, insieme alle loro lingue, a una vita postuma e migrante, al di là delle intenzioni di un qualsivoglia soggetto. La lingua, ma solo in perenne movimento”.
Somiglianza e affinità (inspo: Kant)
“[…] nessuna traduzione sarebbe possibile se avesse come scopo ultimo la somiglianza con l’originale.”
Il concetto di somiglianza (Ähnlichkeit) è alla base delle teorie tradizionali della traduzione, che si pongono l’obiettivo di cercare un’equivalenza tra le lingue, ma Benjamin anche in questo caso vuole offrirci una visione nuova e introduce il concetto di affinità sovrastorica (überhistorische Verwandtschaft). La traduzione non vuole somigliare all’originale perché quest’ultimo è un essere vivo, che si trasforma e si rinnova, e allo stesso modo la lingua del traduttore è in continuo mutamento. Benjamin afferma che “[…] ogni affinità sovrastorica tra le lingue consiste nel fatto che in ciascuna di esse, considerata come un tutto, è intesa una sola e unica cosa, che tuttavia non può essere colta da nessuna di esse presa singolarmente, ma solo dalla totalità delle loro intenzioni tra loro complementari: la pura lingua”. Con l’espressione “pura lingua” Benjamin non si riferisce a qualcosa di astratto, ma a qualcosa che nasce dalla complementarietà, su un altro piano, delle lingue naturali. Il traduttore ha il compito di far emergere tale complementarietà. Un compito piuttosto arduo, chissà se l’intelligenza artificiale è in grado di accedere a questo piano. E chissà cosa avrebbe scritto Benjamin al riguardo.
Fedeltà e libertà
“Infatti, come i cocci di un vaso, per essere ricomposti, devono susseguirsi nei minimi dettagli senza tuttavia assomigliarsi, così la traduzione, invece di assimilarsi al significato dell’originale, deve piuttosto ricreare nella propria lingua, amorevolmente e fin nei singoli dettagli, il modo di intendere dell’originale, in modo che entrambe le lingue, come i cocci, frammenti di un stesso vaso, siano riconoscibili come frammenti di una lingua più grande.”
In un’ottica in cui la traduzione non ha nulla a che vedere con il mero trasferimento di significati da una lingua all’altra, l’antinomia tra i concetti fondanti delle teorie della traduzione, ovvero la fedeltà e la libertà, secondo Benjamin va superata. Quando si traduce non ci si deve limitare all’inteso ma anche e soprattutto al modo di intendere, facendo attenzione alla “tonalità affettiva delle parole”, ovvero a ogni bagaglio culturale specifico che ogni parola di ogni lingua porta con sé e che si può riconoscere solo avendo abitato quella lingua. Una buona traduzione, dunque, non cerca di addomesticare il testo sorgente, ma ne mantiene vive le asperità, accogliendole e facendosi modificare. Ogni lingua naturale è un frammento della pura lingua e il compito del traduttore non consiste nel ricomporre i frammenti, la traduzione non deve leggersi come l’originale, ma deve essere traslucida, far passare la luce senza coprire l’originale. La fedeltà per Benjamin è fedeltà alla parola. Anche il concetto di libertà del traduttore va rivisto in chiave nuova ed è da intendersi come liberazione dal senso.
“[…] la traduzione sfiora fuggevolmente l’originale, e solo nel punto infinitamente piccolo del senso, per proseguire la sua traiettoria, secondo la legge della fedeltà, nella libertà del movimento linguistico.”
Quello che vi ho dato è solo un piccolo assaggio dei tanti argomenti trattati da Benjamin, giusto per accendere una lampadina qua e là senza però guidarvi lungo l’intero percorso, e nel farlo mi sono attenuta al commento della curatrice del testo nell’intento di essere il più precisa possibile. Oltre al testo in sé, molto interessanti sono le note di traduzione di Costa, che spiega il motivo per cui ha fatto determinate scelte, talvolta in contrapposizione alla traduzione precedente. Insomma, un’immersione totale nel mondo delle parole e del mestiere di chi traduce.