Il libro che vi proponiamo oggi è un testo multilingue, così come lo è la mano che lo ha scritto. Nel panorama letterario contemporaneo, poche persone hanno esplorato le profondità della traduzione con l’intensità e la passione di Jhumpa Lahiri. La sua raccolta di saggi, Translating Myself and Others, pubblicata da Princeton University Press nel 2022, apre un varco sul suo modo di intendere e vivere la traduzione sia di opere altrui, sia di sé stessa.
LINGUE E IDENTITÀ IN TRADUZIONE
Uno dei temi intorno al quale si snoda buona parte della raccolta è il concetto di lingua come fattore identitario. La vita stessa di Lahiri dimostra come l’identità linguistica sia fluida e cangiante. Il bengalese è la lingua della sua famiglia, ma lei è cresciuta immersa nell’inglese, anche se lo ha appreso come lingua straniera. Da adulta ha scelto l’italiano per poter esprimere un lato di sé che non riusciva a tradursi sulla pagina. Di fronte a un tale background multilingue e multiculturale viene spontaneo chiedersi quanto sia limitato il concetto di “lingua madre”, che l’autrice stessa descrive come «an inherently debatable, perpetually relative concept».
Lahiri non affronta la questione soltanto dal proprio punto di vista privilegiato, ma porta anche le esperienze di Gramsci e Calvino, entrambi autori con un’identità linguistica plurima e sfaccettata. Il primo, con sangue albanese e spagnolo nelle vene e per metà sardo, nelle Lettere dal carcere parla del processo dinamico di diventare italiano attraverso la migrazione e una “traduzione” tra diverse culture. Il multilinguismo di Gramsci si esprime anche nelle relazioni personali: l’unico modo di essere padre per lui, infatti, è grazie alle lettere scritte in russo ai figli, “traducendo” la paternità in un’altra lingua.
Nel saggio Il Calvino del mondo, presente anche in italiano in calce alla raccolta, Lahiri descrive l’identità italiana dell’autore come «inclinata verso l’Altro». Calvino infatti era nato a Cuba, cresciuto a Sanremo, all’epoca cosmopolita, aveva sposato una traduttrice argentina e, dopo aver vissuto molti anni in Francia, dove scrisse le sue opere più note, e viaggiato per il mondo, aveva scelto di vivere a New York, da sempre crocevia di diverse culture. Secondo William Weaver, suo traduttore americano, Calvino si prestava alla traduzione, perché usava un linguaggio letterario universale, ma era al tempo stesso impegnativo per via del ritmo e dell’uso del linguaggio scientifico. In sostanza, secondo Lahiri «Calvino, scrittore prettamente italiano, non ha mai scritto puramente in italiano, anzi aveva una lingua sua, un regno espressivo che apparteneva solo a lui.»
Infine, in questa intervista, Lahiri parla del diverso modo di esprimersi di corpo e anima nelle lingue che conosce. Cambiando lingua, mutano non soltanto il modo di pensare, ma anche lo stato d’animo e la prossemica, perché una lingua si parla con tutto il corpo. Quindi, se conosciamo più di una lingua, la nostra identità non è fissa e immutabile, ma cambia al variare dell’idioma che stiamo parlando in quel momento.
PERCHÉ L’ITALIANO?
Già nel libro In altre parole, Lahiri aveva cercato di dare una risposta definitiva a questa domanda. Nel momento in cui si è resa conto di essere una scrittrice senza lingua madre e di sentirsi, per certi versi, orfana dal punto di vista linguistico, ha compiuto una scelta di libertà. Ha scelto l’italiano per riuscire a dare voce a lati della sua personalità che altrimenti non si sarebbero potuti esprimere, in un atto di emancipazione e di rinascita creativa.
Nel saggio Why Italian?, Lahiri scrive che finché decidi di studiare una lingua straniera da adulta, ricevi complimenti e incoraggiamenti. Quando, però, decidi di scrivere in quella lingua, allora tutto cambia, ti macchi del peccato di hybris. Se, infatti, da un lato questa scelta le ha concesso di vivere una “seconda vita”, dall’altro le ha fatto anche conoscere un lato poco accogliente del pubblico italiano che si sintetizza nell’infelice domanda: “perché parli e scrivi nella nostra lingua?”. Quel “nostra” sottolinea il fatto che l’autrice usa una lingua che non le appartiene e la spinge a giustificarsi. Inoltre, anche “il suo Italiano”, talvolta scritto tra virgolette, è stato messo al vaglio alla ricerca dell’alterità e le è stato anche chiesto di uniformarsi a un uso più standard della lingua per accontentare i lettori più conservatori.
Nel saggio, Lahiri riflette inoltre sul fatto che il processo di scrittura in italiano la costringe a essere più vigile per individuare e colmare i possibili punti ciechi di una lingua in cui si esprime con maggiore incertezza. Questo limite, però, può diventare un punto di forza, perché consente di sperimentare nella debolezza, di trovare nuove possibilità espressive nei margini e, perché no, nella contaminazione.
L’AUTOTRADUZIONE
E veniamo al cuore della raccolta: l’autotraduzione.
Lahiri sostiene che ogni libro che scrive in italiano, contiene già, in potenza, il suo corrispettivo inglese: «[…] se scelgo di scrivere in italiano, la versione inglese leva subito la testa come un bulbo che germoglia troppo presto, a metà inverno. Tutto ciò che scrivo in italiano nasce con una simultanea potenziale esistenza – forse la parola migliore qui è destino – in inglese».
Verrebbe quindi da pensare che autotradursi sia una pratica a lei congeniale, ma nel saggio Traduttrice di me stessa smentisce questa ipotesi prendendo in esame la traduzione del romanzo Dove mi trovo, Whereabouts in inglese.
Quando si è trattato di decidere con la casa editrice chi avrebbe tradotto il romanzo in inglese, Lahiri si è tirata indietro. Il timore che la traduzione diventasse una riscrittura, portandola quindi a tradire se stessa, era troppo forte. Ha accettato però di supervisionare con spirito collaborativo il lavoro di Frederika Randall, alla quale erano stati affidati i primi capitoli da tradurre. All’inizio Lahiri pensava che il libro fosse “difettoso” e che avrebbe rifiutato di conformarsi all’inglese, rendendo la traduzione impossibile. Invece, quando si è trovata tra le mani le prime pagine tradotte da Randall, ha capito che il suo italiano aveva «linfa sufficiente per sostentare un altro testo in un’altra lingua» e ha sentito il bisogno di cimentarsi lei stessa nella traduzione.
Per poter iniziare a lavorare sul testo, ha dovuto però attendere di tornare a Princeton, dove Roma le mancava. Nella nostalgia e nell’esilio linguistico, la traduzione è diventata uno strumento per aggrapparsi a una lingua che scivolava via. Il libro l’ha accolta «come certi vicini, se non con calore, con la gentilezza sufficiente». Inizia così un processo destabilizzante e brutale. Autotradursi l’ha costretta a tornare sull’originale e a mettere in discussione l’idea che fosse definitivo. L’autotraduzione ha fatto emergere tutte le debolezze e i difetti del testo, così l’opera già pubblicata è tornata allo stato di «work in progress» e Lahiri si è trovata a lavorare sulla versione inglese, ma anche su un terzo libro: una versione italiana rivista e corretta.
Se la traduzione è il modo migliore di leggere un testo (semicit.), l’autorevisione di un’autotraduzione è quasi un’esperienza mistica. Una volta prese le distanze dal testo fonte, si raggiunge un livello di concentrazione tale che porta a una sorta di cecità selettiva che si focalizza soltanto sul linguaggio, ma, allo stesso tempo, si sviluppa anche una vista a raggi X. Ecco che emergono le ripetizioni, la ridondanza, che poco si adatta alla sinteticità dell’inglese, e gli errori come “makes steps” invece di “takes steps” per descrivere una persona che fa quattro passi. Arrivano anche momenti di resa di fronte all’intraducibile, come “portagioie”, che nell’originale la protagonista considera la parola più bella della lingua italiana, ma che non ha un corrispettivo inglese che riproduca lo stesso effetto e costringe l’autrice-traduttrice a una nota a piè pagina.
Due sfide vinte con successo, invece, sono i titoli “Dove mi trovo” e “Da nessuna parte”. Nel primo caso, la resa letterale “where I find myself” risultava pesante, poi su un aereo diretto a Roma l’illuminazione: Whereabouts, «una parola intrinsecamente inglese e fondamentalmente intraducibile». Anche per il titolo dell’ultimo capitolo, “Da nessuna parte”, ha prevalso l’«orecchio inglese» e, invece della resa più letterale “In no place”, ha vinto la forma avverbiale Nowhere, che contiene anche il “where” del titolo.
In definitiva, l’esperienza di autotradurre Dove mi trovo ha fatto sorgere nell’autrice un affetto per il libro che è possibile solo grazie all’intimità che si crea nell’atto collaborativo della traduzione, in opposizione al gesto solitario della scrittura. «Tradurre Dove mi trovo, scriverlo una seconda volta in una seconda lingua lasciando che, in gran parte intatto, rinascesse, me lo ha fatto sentire più vicino, il legame si è raddoppiato…».
LE METAFORE
Una costante di tutti saggi della raccolta sono le metafore con cui Lahiri descrive il processo traduttivo. Particolarmente efficaci sono quelle ispirate dalla traduzione dal latino all’inglese delle Metamorfosi di Ovidio. Lo stesso poema ovidiano, ricco di storie di trasformazioni e mutamenti incarna la natura fluida e dinamica del processo traduttivo. D’altra parte, la traduzione è per sua natura metamorfica: non è mai definitiva, ma, per mantenersi viva, è costretta a cambiare e ad adattarsi ai tempi e ai contesti.
Nel saggio “In Praise of Echo”, Lahiri esplora la relazione tra testo originale e traduzione attraverso il mito di Eco e Narciso. In questa metafora, l’originale è rappresentato da Narciso, assorto nella contemplazione di sé, mentre la traduzione è Eco, condannata a ripetere le parole altrui. Lahiri sfida questa visione tradizionale, proponendo che la traduzione non sia una mera imitazione, ma un atto creativo autonomo che arricchisce e rinnova il testo di partenza. Chi traduce riproduce parole già scritte, proprio come Eco, è vero, ma se nel poema ovidiano quella di Eco è una punizione, secondo Lahiri, la traduzione può trasformarsi da condanna a sfida stimolante. La traduzione non è, infatti, una semplice copiatura, ma un sofisticato processo di rielaborazione che richiede immaginazione e libertà. Eco segue Narciso, tenendo traccia di ogni singola parola, per catturarne l’essenza e riversarla in un altro testo, in un’altra lingua e in un’altra cultura.
Infine, tra le tante metafore di questo libro, non possiamo non citare l’immagine di copertina: un Giano Bifronte femminile stilizzato. Quale rappresentazione migliore non soltanto del contenuto del libro, ma dell’autrice stessa?
Buona lettura