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Elio Vittorini e il segreto di Pulcinella

 

“[…] La traduzione di Lawrence citata sul “Frontespizio”, l’ho fatta io, e rispetti il segreto di Pulcinella, Vittorini non ci si è affaticato sopra. Creda, quella prosa che appena tiripettata mi faceva arrossire, mi riempie di legittimo orgoglio con le arditezze del suo stile, ora che non lavoro incalzata dagli S.O.S. del negriero…”

Lucia Rodocanachi – Lettera a Carlo Bo, 27 novembre 1937

 

Chi era Lucia Rodocanachi? E perché, oltre a sentire il bisogno di puntualizzare che la traduzione di cui si è occupata non è di Elio Vittorini, definisce il grande letterato del Novecento “negriero”? Volendolo spiegare in poche parole, potremmo semplicemente dire che la signora in questione, a partire dal 1933 e per svariati anni, tradusse per Vittorini diversi libri dall’inglese commissionati allo scrittore da importanti case editrici italiane, lavorando spesso e volentieri a titolo gratuito e senza mai figurare come co-traduttrice in alcuna pubblicazione.

Arrivati a questo punto, sappiamo già che tra di voi ci sarà qualcuno che vorrebbe saperne di più. Del resto, per chi vive di traduzione, l’argomento è troppo interessante e scottante per non voler approfondire. Leggere Si diverte tanto a tradurre? – Lettere a Lucia Rodocanachi 1933-1943 può senza dubbio soddisfare la vostra curiosità. Pubblicato dalla casa editrice Archinto, questo volume a cura di Anna Chiara Cavallari ed Edoardo Esposito raccoglie la corrispondenza che lo scrittore siciliano inviò per circa dieci anni a quella che alcuni hanno definito la sua “Musa”.

La piacevole e scorrevolissima introduzione, “Vivere di traduzioni”, pone le premesse necessarie per inquadrare le lettere di Vittorini dal punto di vista storico e per capire in che modo è iniziato il rapporto epistolare tra i due protagonisti di questa vicenda. Quello che leggiamo, però, è il solo punto di vista di Vittorini, perché mancano le risposte di Rodocanachi, le cui lettere sono andate quasi tutte perdute, tranne quella che apre questo articolo e che è riportata proprio nel libro.

Il ritratto di Vittorini che traspare dalle lettere è poco lusinghiero: conscio di essere in difetto, perché vuole tradurre pur non conoscendo benissimo l’inglese [1] ed è quindi costretto a chiedere aiuto, nei primi approcci epistolari si rivolgerà a Rodocanachi con un misto di educazione e vergogna per poi, più avanti, lasciarsi andare a toni più perentori in prossimità delle date di consegna all’editore, arrivando a pretendere più pagine in minor tempo (le parti in corsivo sono presenti già nell’originale):

 

“Cara signora,

le sono grato che abbia accettato e non so come dirle meglio grazie. Tante cose mi avevano obbligato a lasciarmi dietro questa traduzione, e adesso ero in imbarazzo perché, da solo, non sapevo come mettermi a correre per giungere in tempo alla data di consegna fissata, improrogabilmente, per il 15 giugno. […] Io sono certo che la sua traduzione potrebbe essere tale da pubblicarsi senz’altro – ma siccome dovrò renderla in un certo senso mia – la prego di rimandarmela nella prima stesura, diciamo così, letterale, in modo che possa rifinirla nel senso mio.”

 

“[…] – Intanto ho bisogno urgente che lei mi spedisca materiale. Aspettavo di giorno in giorno e ho finito per non avere più lavoro di questo. Lei deve ancora darmi, se non sbaglio, Wintry Peacock, Samson and Delilah, Primrose Path, Tickets Please e The Ghost in the Rose Garden – Faccia presto, per piacere, e mi spedisca intanto tutto quello che ha pronto. Sento che c’è quasi una punta di sfruttamento, in questo, da parte mia. E mi consolo solo al pensiero che anch’io sono sfruttato, da parte dell’editore e di tutti. Ma lei, a sua volta, chi sfrutta?”

 

“Cara Signora,

urge che lei mi spedisca subito almeno un capitolo della traduzione unitamente al testo. Se più di un capitolo meglio. Occorre perché ci diano un anticipo. Dovrei consegnare entro sabato.

Scusi la fretta di questa lettera. […]”

 

Nell’avanzare le proprie richieste, ogni tanto Vittorini si abbandona anche a una leggerezza che tanto fa indignare i traduttori: sminuire l’entità del lavoro da svolgere. Qui il corsivo è nostro:

 

“[…] Le spedisco a parte quattro raccontini del Poe che mi son rimasti fuori dal mio programma di lavoro fino al 10 corrente, data con la quale debbo definitivamente consegnare ogni residuo Poe. Mi vuole aiutare a salvarmi dalle imprecazioni di Casa Mondadori?”

 

Con le citazioni ci fermiamo qui, e per due motivi: il primo è che, come sempre, l’intento della nostra rubrica è invogliarvi ad approfondire leggendo voi stessi i titoli che consigliamo; il secondo è che riteniamo giusto che ognuno tragga le proprie conclusioni riguardo all’operato di Vittorini valutando le lettere nella loro interezza e non solo in base a poche righe. In questo senso i curatori del volume hanno agito in modo molto onesto nei confronti della vicenda, condannando certo il comportamento non proprio retto dello scrittore, ma cercando anche di concedergli alcune attenuanti dovute al periodo storico, alle condizioni di lavoro dei traduttori (scoprirete da soli quanto erano pagati negli anni Trenta e Quaranta) e alla mentalità dell’epoca. Sul fatto che, per sua stessa ammissione, Vittorini non corrispondesse affatto o solo in minima parte i compensi che Rodocanachi avrebbe dovuto ricevere per il proprio lavoro, bè, non ci sono giustificazioni che tengano.

[1] A questo proposito vi rimandiamo all’esaustivo e interessante articolo di Silvia Guslandi, Portare Steinbeck agli italiani, dove la poca dimestichezza di Vittorini con l’inglese americano viene più volte rimarcata.