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Esperienze di traduzione – “L’arte di esitare”

Lo abbiamo visto fare capolino tra i post di Facebook e tra le storie di Instagram di molti colleghi traduttori, segno che, nonostante le (tante) ore passate a “portare mondi da una lingua all’altra”, della traduzione non ci stanchiamo mai. Perché diciamolo, facciamo un mestiere bellissimo, anche se per tanti versi difficile. Ognuno di noi lo vive a modo proprio e porta con sé un bagaglio di esperienza più o meno grande, come ci raccontano gli undici traduttori protagonisti del libricino “L’arte di esitare – Dodici discorsi sulla traduzione”.

Avete letto bene, ho scritto “undici traduttori” anche se i discorsi sono dodici. Il perché è presto detto: c’è infatti un intruso, non un traduttore bensì un “tradotto”, lo scrittore francese Daniel Pennac, i cui libri “rivivono” in italiano grazie a Yasmina Melaouah, che nel suo discorso ci spiega come, traducendo, abbia imparato la lentezza e con essa abbia reimparato a guardare il mondo. Sempre lei ci ricorda la fatica fisica del tradurre per ore, ma l’assoluta soddisfazione che si prova ogni volta che si trova la parola giusta.

Di fatica ci parla anche Renata Colorni, traduttrice di Freud: la fatica di “impadronirsi” di una materia molto complessa, “per la pluralità e l’ampiezza dei riferimenti culturali non sempre espliciti e, soprattutto, per l’esigenza di assicurare […] la coerenza terminologica che non poteva e non può mancare a una disciplina sulla quale si è fondata una professione terapeutica rigorosamente strutturata che esige la certezza di un lessico condiviso.” Curiosità: nel 2010, la Colorni ha firmato la nuova traduzione del classico di Thomas Mann “Der Zauberberg”, ritradotto con il titolo “La montagna magica” (e non “incantata”, come nella versione che tutti conosciamo).

A proposito di lessico, Pino Cacucci – che ha tradotto un gran numero di autori latinoamericani e spagnoli –  ci fa riflettere sull’importanza di non snaturare l’ambientazione di una storia: non ha senso, ad esempio, tradurre la “cantina” sudamericana con un banale “bar”, dal momento che le due cose non si equivalgono affatto. Meglio lasciare il termine in originale e lasciare una nota. Del resto, come lui stesso fa notare, “nessuno, da tempo, si sognerebbe più di tradurre il termine “pub” dall’inglese: lo sappiamo tutti cosa è un pub e se lo traducessimo in bar o osteria o taverna, perderemmo l'”ubicazione ambientale” di quel luogo caratteristico di una precisa zona del mondo.”

Non dimentichiamo certo gli altri protagonisti di questi discorsi, ma evitiamo di svelarvi altro sperando di avervi invogliati a scoprire da soli le belle parole che ognuno di loro ha riservato al mestiere che ci accomuna.