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I margini e il dettato

“Scrivere era muoversi dentro quelle righe, e quelle righe – di questo ho un ricordo nitidissimo – sono state la mia croce. Erano lì apposta per segnalare, anche con il colore, che se la tua scrittura non restava chiusa tra quei fili tesi, eri punita”. Come avrete capito, la nostra proposta di oggi per #traduzioneacolazione è un testo che probabilmente è già presente nella vostra libreria: I margini e il dettato di Elena Ferrante.

Abbiamo deciso di proporvi questa raccolta di lezioni sulla scrittura perché pensiamo possano fornire spunti interessanti anche a chi traduce. In primo luogo, perché si dice spesso che, per tradurre bene, bisogna leggere, possibilmente chi scrive bene. Quale strumento migliore, quindi, di un testo che esplora l’”avventura di scrivere”? Ma c’è anche un’altra ragione, che è più che altro una riflessione che vorremo condividere con voi. Ci ha attratto fin da subito il titolo e in particolare il riferimento ai “margini”. Nella prima lezione, La pena e la penna, Ferrante parla di due modalità di scrittura, quella acquiescente e quella impetuosa. La prima, disciplinata e ubbidiente, l’ha imparata sin dalle righe rosse che alle elementari indicano il limite dello spazio espressivo, e affinata studiando il bello scrivere della tradizione. La seconda, invece, è un impeto che scatta di rado, ma che non si può contenere, come se tutto ciò che è stato trattenuto dai margini a un certo punto si impadronisse della mano che scrive, esplodendo strafottente, per poi lasciarla di colpo.

Leggendo questa lezione scatta un parallelismo con la traduzione, se pur con i dovuti distinguo. Chi traduce comprende bene il significato di margine inteso come limite, talvolta imposto dai clienti, dalle consuetudini di un settore o di un genere, dal pubblico e dallo stile del testo fonte. Anche in traduzione, quindi, la creatività viene imbrigliata nei margini, ma allo stesso tempo stimolata nel confronto con quello che è forse il limite maggiore, l’intraducibile, l’alterità che non si lascia addomesticare e che va preservata. Da questo punto di vista, il margine può assumere un altro significato, quello di soglia. La soglia che abita chi traduce è fatta di un tempo sospeso ed esitante in cui tutto è ancora possibile, nessuna parola è stata eletta sopra le altre, ma è fatta anche di guizzi di intuizione che, prepotenti, illudono di aver trovato la soluzione e danno il coraggio di attraversare quella soglia.

In Acquamarina, la seconda lezione contenuta nel testo, si trova un riferimento alla difficoltà di rendere il dialetto. Ferrante scrive: “Appena lo trascrivevo, suonava distante da quello vero, e stridente dentro la bella scrittura di cui cercavo di essere capace”. Per rendere meglio l’idea, porta l’esempio dell’acquamarina di sua madre, un oggetto reale, ma che nella sua testa era “fluttuante” e inafferrabile. Dal racconto della ricerca dell’aggettivo per descriverla emerge tutta la difficoltà di ridurre sul foglio i tanti significati attribuiti alla pietra, ma anche della ricerca della parola giusta. Chi traduce troverà familiare la fatica di scandagliare le sfumature, cromatiche e semantiche, i ripensamenti e la sensazione di aver messo in luce soltanto un aspetto, lasciando in ombra i meno evidenti, ma che rendono tridimensionale la parola originale.

Infine, l’ultimo spunto lo traiamo da Storie, io. Qui Ferrante scardina l’idea un po’ pigra secondo la quale la scrittura sarebbe una manifestazione miracolosa della voce interiore dell’io scrivente. Per l’autrice “scrivere invece è entrare ogni volta in uno sterminato cimitero dove ogni tomba attende di essere profanata. Scrivere è accomodarsi in tutto ciò che è stato scritto […] e farsi, nei limiti della propria vorticosa, affollata individualità, a propria volta scrittura”. Secondo Ferrante, per trovare la propria scrittura occorre lavorare duramente con la “cattiva lingua” finché, con fatica e fortuna, le intuizioni buone ed “epocali” si fanno strada tra le frasi fatte, che a loro volta sono state “frasi vere” del loro tempo. Anche questa riflessione si può adattare alla traduzione perché anche qui occorre attraversare le stratificazioni della lingua, riconoscere i cliché e capire quando usarli e quando invece scardinarli nella speranza di scovare una soluzione originale grazie alla contaminazione con una lingua e una cultura altre.

Nella speranza che queste riflessioni non risultino troppo banali, ci fermiamo qui con i parallelismi, ma vi invitiamo a leggere il libro perché contiene molti spunti interessanti sulla scrittura, soprattutto femminile, della quale “non un rigo va perso nel vento”.

 

Ringraziamo Ilenia Gradinello, che ha scritto questo articolo per noi.