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La Bibbia tradotta. E anche un po’ tradita.

Chiunque abbia dato almeno un esame di Teoria e Storia della Traduzione ha incrociato la Bibbia, il libro, si dice, più tradotto al mondo. Quindi perché tornare a parlarne? Perché gli studi, e i dibattiti, sull’interpretazione del testo proseguono e le traduzioni vengono riviste e corrette alla luce delle nuove conoscenze acquisite. Uno degli aspetti più interessanti di questo processo è l’analisi degli errori di traduzione commessi nel tempo. Siccome riteniamo che dall’errore si possa sempre imparare, vi proponiamo oggi La Bibbia tradita – sviste, malintesi ed errori di traduzione di Pinchas Lapide.

Prima di proseguire, è bene inquadrare l’autore e il suo posizionamento. Pinchas Lapide era un teologo, storico delle religioni e diplomatico. Nato in Austria ed educato alla tradizione ebraica, a 15 anni fu internato in un campo di concentramento, da cui fuggì. Conosceva greco e latino e dopo la guerra, in Palestina, studiò Ebraismo e Storia del cristianesimo. In questo testo, Lapide conduce un’analisi da una prospettiva teologica e di fede, senza nascondere le proprie opinioni, anzi sottolineandole con punti esclamativi, piuttosto rari in un saggio. Lapide scrive in tedesco, per un pubblico tedesco, quindi si riferisce in particolare alla Bibbia di Lutero con relative revisioni e alla Einheitsübersetzung (traduzione comune delle Conferenze episcopali dei Paesi in lingua tedesca), ma anche alla Bible of Jerusalem e successive revisioni. Gli errori evidenziati da Pinchas Lapide sono riscontrabili in tutte le versioni della Bibbia ebraica (Antico Testamento), comprese la Septuaginta (traduzione in greco nota anche come La Bibbia dei settanta), la Vulgata (traduzione in latino di San Gerolamo) e in tutte le versioni del Nuovo Testamento in latino e nelle principali lingue moderne.

“Sì, ma questi errori?”, direte voi. Ora li esploriamo.

Ci sono i “soliti noti”: un cammello non può passare per la cruna di un ago perché in realtà è una gomena, il Mar Rosso ha cambiato colore perché Lutero ha scambiato il Rede Sea (Mare dei Giunchi) di Wyclif con Red Sea. Con buona pace di Michelangelo (https://www.roma.com/il-mose-di-michelangelo-la-maestosa-opera-che-fu-psicanalizzata-da-sigmund-freud/), quando scende dal Sinai, Mosè non ha le corna, ma è raggiante. Infine, Eva, per un errore di Gerolamo, finisce per mangiare un frutto che fu importato dall’Europa in Oriente soltanto nel XIX secolo. Rimanendo su Eva, in molte versioni si legge che fu plasmata dalla “costola” di Adamo. Ma è davvero così? Il termine ebraico originale significa raramente “costola” e viene tradotto più abitualmente con “fianco”. Lapide suggerisce che questa interpretazione abbia una responsabilità nella svalutazione della donna nel mondo cristiano, dal momento che, se senza una costola si può sopravvivere, un fianco è indispensabile. Allargando lo sguardo ad altre figure femminili, scopriamo che nel verso di Is 7,14 “Ecco, la vergine concepirà e partorirà un figlio che sarà chiamato Emmanuele”, il termine originale per riferirsi a Maria è alma, cioè “giovane donna” non “vergine” che in ebraico sarebbe betulah. Infine, nella traduzione del capito 31 del libro dei Proverbi si legge “A chi viene data una donna industriosa che è più nobile di perle preziose”. Qui la donna viene dipinta come passiva e sottomessa, data in dono all’uomo. Il testo ebraico però recita “Eshet hail mi jinza?” che significa “una donna valorosa chi la trova?”. Eshet hail indica una sposa e una madre, ma anche una donna indipendente che porta avanti con successo la propria attività commerciale. Quest’ultima accezione è del tutto sparita in traduzione.

L’autore non teme di toccare altri punti sensibili, come la Parola. Nel testo fonte abbiamo dabar che significa certamente “parola”, ma, per la polisemia tipica dei termini ebraici, anche “discorso, affermazione, oggetto, cosa, richiesta, evento, faccenda o storia”. Questa molteplicità di significati non farebbe pensare a una parola calata dall’alto, ma a un dialogo in cui anche l’essere umano fa la sua parte. Nella traduzione in greco, si passa a logos che riesce ancora a tenere insieme i significati di “discorso, affermazione, dichiarazione o parola”. Assistiamo al maggior restringimento semantico nella Vulgata latina con il Verbum Dei. Qui la parola di Dio è intesa solo come dettatura e si impedisce qualsiasi libertà interpretativa.

Lapide si spinge oltre e si domanda se Dio sia maschile o femminile. Nei dieci comandamenti si fa riferimento alla proibizione delle immagini di Dio perché, secondo l’autore, non si cristallizzi un’unica visione e interpretazione. Quando Dio si rivela a Mosè dice letteralmente: “Io sarò chi sarò”, ma questa frase viene spesso resa con “Io sarò Colui che sarò” facendo prevalere il maschile. Per provare a fare chiarezza, Lapide torna ancora una volta alla Bibbia ebraica, in cui ci si riferisce spesso a Dio come Elohim. Questo termine è un pluralia tantum, cioè un vocabolo usato solo al plurale che, secondo l’autore, servirebbe a rappresentare la molteplicità, né maschile, né femminile, delle caratteristiche divine. Va però detto che in altri punti del libro lo stesso Lapide fa riferimento a Dio come padre.

 

Nel saggio viene dato ampio spazio anche a tutte le manipolazioni che hanno reso possibile quella che Lapide chiama la “de-ebraizzazione” di Gesù volta a rendere la Bibbia più “esportabile” e funzionale al progetto di evangelizzazione della Chiesa. Ad esempio, nelle traduzioni più antiche del Nuovo Testamento si è perso il fatto che Gesù fosse un rabbi, frequentasse le sinagoghe e festeggiasse Pesah, la Pasqua ebraica. Non mancano anche i riferimenti alle epurazioni degli aspetti più politici del testo, partendo dall’analisi storica della figura del profeta. Il nabi ebraico era un disturbatore, aveva il compito scomodo di opporsi a ogni forma di ingiustizia. Solo nel passaggio al greco questa figura acquisisce il senso di veggente in grado di compiere profezie. Si giunge poi ai “due ladroni” della crocifissione. Da un’analisi storica emerge che la crocifissione era destinata a due tipi di criminali: gli schiavi che fuggivano e i ribelli contro l’impero romano. Secondo Lapide, i “ladroni” sarebbero stati in realtà rivoltosi perché la croce aveva uno scopo intimidatorio per scoraggiare insurrezioni, mentre i comuni briganti venivano uccisi dai soldati romani senza tante cerimonie. Per capire perché nei Vangeli si perdono questi riferimenti politici, bisogna pensare che nel ’64, dopo il rogo di Roma, Nerone diede la colpa ai cristiani ordinando che fossero giustiziati in modi atroci. I Vangeli furono ultimati poco dopo, quindi non c’è da stupirsi che si sia fatto di tutto per eliminare ogni sospetto che la Chiesa, il suo fondatore e gli apostoli avessero tramato contro l’impero.

 

Nel libro vengono citati anche errori che ci strappano un sorriso, come quelli legati ai nomi di animali, compresi l’unicorno e la formicaleone. Visto il periodo, non possiamo non citare la curiosa storia del coniglio. Nel testo ebraico si parla di “iraci” che il traduttore greco Onquelos ha trasformato in “topi saltatori” e in latino sono diventati “conigli”. L’immagine del coniglio venne associata ai riti pagani perché, in virtù della sua proverbiale prolificità, rappresentava i vizi e la lussuria. In molti mosaici del IV secolo, il coniglio viene rappresentato in scene battesimali simboleggiando la persona non credente che entra nella Chiesa. Siccome all’epoca il battesimo era celebrato durante la Pasqua, ecco svelato perché ancora oggi parliamo di “coniglio pasquale”. Altrettanto divertenti sono gli errori risultanti dalla distorsione del latino liturgico operata dalla cultura popolare. Così il passo del Padre nostro da nobis hobie si è trasformato nella figura letteraria di donna Bisodia citata anche da Gramsci, i profeti Enoc ed Elia si sono fusi ne er Nocchilìa e l’espressione Hoc est corpus meum è diventata Hokuspokus.

 

Nel libro si fa riferimento anche ai molti errori di trascrizione, più o meno volontari, commessi dagli amanuensi che copiavano i testi. A questo riguardo, vi suggeriamo di leggere a questo link https://ms.fortresspress.com/downloads/0800697731Chapter1.pdf un interessante dialogo tra i due accademici Bart D. Ehrman e Daniel B. Wallace sull’incertezza dei testi fonte e sulle tante varianti esistenti. Per esempio, avete presente la famosa frase: “chi non ha peccato scagli la prima pietra”? Ecco, l’intera scena a cui si riferisce non era presente nei manoscritti più antichi e sarebbe un’aggiunta molto più tarda.

Restando in ambito accademico, vi suggeriamo anche l’articolo a questo link (https://www.ajol.info/index.php/actat/article/view/5454) in cui vengono analizzati dal punto di vista dei Translation studies gli approcci adottati nella resa di alcuni passaggi e in cui si spiega il contributo che potrebbero apportare persone esperte di traduzione nelle commissioni preposte allo studio e alla revisione della traduzione della Bibbia.

 

Gli esempi di errori che abbiamo riportato sono solo alcuni dei tanti contenuti nel libro e nella critica biblica. Una questione tanto complessa non si può sintetizzare in un post, però ci può insegnare che talvolta la narrazione prende il sopravvento sul contenuto che racconta e, se non si presta attenzione, la traduzione può diventare uno strumento di questo processo.

 

Ringraziamo Ilenia Gradinello, traduttrice brevettuale e Project Manager, che ha scritto questo articolo per noi.