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L’assassino della lingua

“La fine fu tremenda. Dentro un argine si ruppe

e fu sangue ovunque. Dalla sua bocca

uscirono torrenti di parole, da yw dant

i atal tafod gogoniannau’r Tad

di fiori scarlatti –yn Abercuawg

yd ganant gogau – il sangue era scuro,

carico di oscenità, una fonte che incantava

con i suoi accesi idiomi.”

Sì, avete capito bene, per questo appuntamento di #traduzioneacolazione non vi serviremo latte e biscotti, ma luminol e guanti in lattice. Si è consumato un terribile delitto e tenteremo di scoprire chi lo ha commesso. La nostra proposta di oggi è L’assassino della lingua, una detective story in versi, in cui l’autrice, Gwyneth Lewis, esplora le conseguenze traumatiche della perdita della lingua madre. Ci faremo condurre nella scoperta di questa raccolta di poesie da Paola Del Zoppo, curatrice e traduttrice dell’edizione italiana per Del Vecchio Editore.

Prima, però, sarà bene raccogliere qualche indizio sull’autrice. Gwyneth Lewis è nata a Cardiff, nel Galles, nel 1959, ha frequentato la scuola bilingue di Pontypridd, studiato Anglistica a Cambridge, Harvard e alla Columbia University, lavorato come giornalista a New York e giornalista televisiva in Gran Bretagna. Infine ha vinto numerosi premi e riconoscimenti come quello di prima poeta nazionale gallese nel 2005.

Ma a noi dei freddi dati anagrafici interessa poco, scaviamo più a fondo.

Nella prefazione Lewis dipinge un quadro di sé in cui capiamo subito che l’aspetto linguistico è centrale nella sua esistenza. Si racconta così: “Vivo una doppia vita. Mi hanno cresciuta parlando una lingua che risale a prima dell’invasione romana della Bretagna. Quando sono spaventata impreco in antichi idiomi brittonici. Eppure sono un’abitante delle città, e navigo in internet usando la lingua dei sassoni che respinsero i gallesi fino alle colline ad Ovest della Bretagna nel sesto secolo. Scrivo in entrambe le lingue. È un patto privato piuttosto complicato, ma tiene.” La strategia di sopravvivenza a questa scissione consiste, dunque, nel tenere le due “famiglie linguistiche” il più possibile separate, pubblicare prima un libro in gallese e poi uno in inglese, evitando di autotradursi perché le opere hanno scopi e pubblici diversi, se non opposti. Tuttavia, nel primo verso della poesia Mother Tongue troviamo un esplicito riferimento alla traduzione: “Iniziai a tradurre nel settantatré / nel cortile della scuola. Per divertirmi al principio. Il solito “cazzo” / il pizzicare in fondo alla mia gola / del fumo di un’altra lingua, dei suoi aspri componenti.” E prosegue descrivendo lo studio di altre lingue come una sorta di dipendenza: “Per un po’ mi limitai al solo gallese ma era leggero/ e il mio gusto cambiava. Non passò molto / e ripresi a tradurre, notando che tre lingue non bastavano. Il “ch” / tedesco era facile, Rilke un ronzio…” Per nostra fortuna, ha risvegliato la “feticista della lingua” che è in lei ed è tornata a tradursi.

Nel 1999 scrisse Y Llofrudd Iaith, che noi oggi conosciamo come L’assassino della lingua. In origine si trattava di una storia poliziesca in versi in cui indagava sulla morte della sua lingua madre. In un villaggio del Galles era stato rinvenuto il cadavere di un’anziana signora, che incarnava la lingua gallese. Il Detective Carma, protagonista metà gallese e metà giapponese, investigava sul caso e sul tentativo di Lewis di liberarsi del concetto di “lingua madre” con le sue pesanti implicazioni psicologiche.

La versione inglese dell’opera, Keeping Mum, più che una traduzione diventa una riscrittura. La prima parte della raccolta è quella che conserva il nucleo della versione gallese, ma Lewis ci racconta che proprio la traduzione le ha ispirato poesie nuove in inglese che definisce “traduzioni senza un testo originale”. La versione inglese si compone di tre parti, i cui protagonisti, un Detective bilingue (come in quella gallese), uno psichiatra e dodici angeli, indagano da punti di vista diversi la relazione con la lingua madre, o forse sarebbe meglio dire Madre Lingua, come se questo rapporto incidesse carne, psiche e spirito.

Come avrete intuito questo piccolo volume racchiude stratificazioni linguistiche e semantiche difficili da dipanare, ma ecco che Paola Del Zoppo ci tende una mano dall’introduzione. Qui troviamo un indizio prezioso per interpretare i primi versi di Her End con cui abbiamo aperto questa colazione. Il gallese ci viene presentato come una vecchia signora morente, c’è sangue dappertutto e restiamo un istante in attesa di scoprire che cosa le uscirà dalla bocca. A questo punto gallese e inglese si fondono in un unico flusso di suoni. L’inglese diventa sempre più chiaro e preciso, mentre il gallese si dissolve via via in un intrico di espressioni enfatiche, evocative e nostalgiche indecifrabili. È in questi versi che, secondo Del Zoppo, si trova la chiave per capire la relazione tra lingua minore e maggiore.

Sempre dall’introduzione scopriamo che Lewis ha preferito il titolo L’assassino della lingua per la versione italiana perché sarebbe stato molto difficile rendere la complessità dell’inglese Keeping Mum che non significa soltanto “tacere, stare in silenzio” perché la parola “mum” suggerisce un altro livello di lettura legato al rapporto di amore-odio con la figura materna. Questa relazione viene esplicitata fin dal primo testo, A Poet’s Confession, dove la poeta confessa l’assassinio della lingua madre. Del Zoppo sottolinea la solo apparente contraddizione tra il termine “confession” del titolo e l’ultimo verso “I’m Keeping mum” che “rende il tacere confessione di ciò che non si può dire”. La stessa Lewis nella prefazione scrive: “la mancanza di parole è, di solito, un indizio che si avvicina a qualcosa di più vero della nostra percezione della vita: il Keeping mum del titolo di questo libro.” Del Zoppo aggiunge ancora un tassello. Ci racconta che A Poet’s Confession è la riscrittura di Cyffes Y Bardd che si chiude con il verso “Ecco il mio passaporto, ho assassinato mia madre” che potrebbe far pensare che è il tacere l’assassino della lingua. Il tacere ritorna anche nell’ultima parte della raccolta, in cui la poeta dedica dodici sonetti a esseri divini difficili da riconoscere e delle cui parole è ancora più arduo afferrare il significato. “L’acustica angelica” è evanescente ed enigmatica e ci ricorda che non può esistere una vera comunicazione senza che si prenda in considerazione la complessità dell’esistenza, mettendo anche in discussione le proprie certezze.

Il caso resta, dunque, aperto.

 

Ringraziamo Ilenia Gradinello, che ha scritto questo articolo per noi.