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Nessuno è perfetto

“Mi secca un poco di vedermi continuamente gettati sulla testa Riguttini e Fornacciari. È destino!”

Questa frase, rivolta da Italo Svevo all’amico Eugenio Montale, esprimeva il disappunto che l’autore de La coscienza di Zeno provava nel vedersi rinfacciare con frequenza i propri scivoloni linguistici, dovuti al fatto di essere cresciuto tra dialetto triestino, lingua tedesca e lingua italiana. Il bello è che, nel prendersela con i due critici in questione, Rigutini e Fornaciari, Svevo incorre in uno degli errori per i quali spesso veniva additato, cioè lo scambio tra consonanti semplici e doppie, di cui si trova riscontro in molte sue opere teatrali, ree di contenere tante altre inesattezze. Il teatro sveviano, infatti, è infarcito di “solecismi[1], barbarismi, ipercorrettismi che esulano da qualunque norma, imputabili a un uso incerto e avventizio della lingua italiana.” Tra le “colpe” dello scrittore triestino, ci sono l’abuso della preposizione di (“sono obbligata di toglierle”, “sarò sempre disposto di ricominciare”), gli arcaismi ortografici e morfologici, come l’uso della semiconsonante j al posto della i, la desinenza in –a nella prima persona dell’imperfetto, e altre infrazioni come “mi avrebbe dispiaciuto”, “dovetti io pregarla a rimanere”. Sul versante letterario le cose non andavano molto meglio, dal momento che scriveva frasi come: “Nella prima giovinezza aveva innamorato profondamente un certo Merighi” (Senilità).

Se vi stupisce leggere che uno come Svevo fosse oggetto di simili accuse, sappiate che lui non è stato il solo autore italiano ad aver deviato dai canoni tradizionali. A spiegarcelo è Pietro Tifone nel suo Malalingua – L’italiano scorretto da Dante a oggi, edito da Il Mulino. Tifone è docente di Storia della Lingua Italiana presso l’Università di Roma Tor Vergata e ha all’attivo altri saggi che esplorano lo sviluppo e l’evoluzione dell’italiano. Molto efficace il suo incipit di Malalingua, in cui premette senza mezzi termini che il libro “rovista nella pattumiera della lingua italiana” traendo esempi dalla letteratura, dal teatro, dal cinema, dal gergo giovanile e da quello dei call center. Non pensiate però che, nel caso degli scrittori, si tratti di un testo denigratorio, tutt’altro. Tifone ribadisce l’importanza dei letterati che cita, ma allo stesso tempo fa notare che, per fortuna, anche i grandi possono scivolare sulle bucce di banana o decidere di prendersi licenze poetiche. Come ben sappiamo, l’errore (o presunto tale) ha fatto e fa parte dell’evoluzione della lingua, e contribuisce ad arricchirla.

Nel capitolo Le sgrammaticature di Verga, vediamo come lo scrittore catanese uscisse spesso dai binari delle convenzioni grammaticali, facendolo però consapevolmente, perché il suo intento era aderire il più possibile alla realtà sociale del suo tempo. Nelle infrazioni passibili di multa da parte degli ausiliari della lingua rientrano:

– l’uso dell’imperfetto indicativo al posto del condizionale, che Verga trovava funzionale al discorso indiretto libero, ma che il critico Filippo Filippi gli contestava, spingendolo a difendere la propria posizione: “Ti dirò che tutti quei passati imperfetti che mi critichi, sono voluti, sono il risultato del mio modo di vedere per rendere completa l’illusione della realtà dell’opera d’arte, della non compartecipazione, direi, dell’autore.” In altre parole, il condizionale avrebbe fatto perdere l’emotività del personaggio popolare;

– concordanze a senso errate, quando usava gli al posto di le riferendosi a soggetti femminili (“La ragazza fingeva di non accorgersi, poiché la nappa del berretto del bersagliere gli aveva fatto il solletico dentro al cuore […]”);

– l’ampio ricorso alle dislocazioni per rendere l’impulsività del parlato (“Voglio fargliela proprio sotto gli occhi a quella cagnaccia!”) o per mettere in risalto elementi della frase (“Apriteli bene, gli occhi!”);

– il che interrogativo, che si ritrova più spesso nell’adattamento teatrale di Cavalleria rusticana (“Che non ci venite a messa voi?”);

– l’uso, anche se limitato, di a me mi, tanto osteggiato dai romanzieri dell’Ottocento perché pleonastico.

Il risultato era un linguaggio anticonformista, in cui l’indiretto libero ricalcava il parlato vero, e in cui alcune espressioni idiomatiche siciliane venivano italianizzate “con il contrappeso del parlato toscano come garante della italianità e quindi dell’intellegibilità dei testi su un orizzonte nazionale”. È anche per questo che, leggendo le opere di Verga, capiamo quello che scrive quasi senza bisogno di mediazione, un po’ come capita con Camilleri, con cui il primo approccio è prudente: la paura di non capire niente è in agguato, e invece ecco che si compie la magia e il nostro cervello “decifra” tutto senza che qualcuno ce lo debba spiegare. Perché? Perché il dialetto di Vigata è “l’italiano parlato dalle persone colte in Sicilia e per questo è capito da chiunque parli l’italiano, indipendentemente dalla regione in cui è nato e vive[2].” Con Verga siamo dunque in presenza di “[…] una lingua composita, una sorta di italiano letterario regionale […]” che “caratterizza tanta prosa veristica minore, e ha d’altra parte numerosi riscontri nella più corrente scrittura del tempo, dal giornalismo alla produzione di consumo ai carteggi privati”. Lo scrittore catanese era a tal punto consapevole di discostarsi dalla diritta via grammaticale da sentire il bisogno di informare anche il traduttore francese de I Malavoglia, avvertendolo che si sarebbe trovato di fronte a “un’opera scritta in lingua italiana ma in stile siciliano”.

E a proposito di diritta via smarrita, come non citare Dante, un altro ribelle della nostra lingua, tacciato non tanto di scrivere in modo errato quanto di accostare alla solennità dell’espressione rifiuti linguistici di ogni sorta. Nelle sue Prose della volgar lingua, il letterato Pietro Bembo, vissuto nel ‘400, accusa il poeta fiorentino di “lasciarsi cadere molto spesso a scrivere le bassissime e le vilissime cose” e di infarcire la Divina Commedia di latinismi e forestierismi, arcaismi e neologismi e, quel che è peggio, “idiotismi dell’uso plebeo”. In Malalingua, Tifone ha stilato un elenco di maleparole e di termini di registro molto basso usate da Dante, tra cui appuzzare, culo, merdoso, puttaneggiare, scuffare (soffiare rumorosamente con bocca e narici), squatrare (fare a pezzi).

Spostandoci in tempi decisamente più recenti e cambiando genere, come non citare la celebre lettera scritta sotto dettatura nel film Totò, Peppino e… la malafemmina, definita “una sorta di microtrattato di linguistica dell’italiano popolare” da Fabio Rossi, autore di una monografia sulla lingua di Totò. L’ilarità della scena è data dal fatto che i personaggi scimmiottano un registro linguistico che non è il loro, commettendo errori di sintassi e grammaticali (“dai dispiaceri che avreta – che avreta, eh già, è femmina, femminile”) e inserendo la punteggiatura in maniera del tutto arbitraria. Vi lasciamo qui il link per rivedere questa pietra miliare del cinema italiano: https://www.youtube.com/watch?v=SzrEfkjdzgw&ab_channel=lollogol

E visto che abbiamo citato anche i film, non possiamo non ricordare il mitico, sgrammaticatissimo dialogo che ha reso indimenticabile il primo Fantozzi e che potete riascoltare a questo link: https://www.youtube.com/watch?v=z0-LGfAZIK4&ab_channel=CGEntertainment

Filini: Allora ragioniere, che fa? Batti?

Fantozzi: Ma… mi dà del tu?

Filini: No, no! Dicevo: batti lei?

Fantozzi: Ah, congiuntivo!

Filini: Sì!

Lasciamo a voi il piacere di scoprire gli ultimi quattro capitoli del libro, tutti molto interessanti perché offrono uno spaccato culturale del nostro Paese, corredandolo di tantissimi esempi: Il guazzabuglio del linguaggio giovanile, con tanto di glossario gergale, Call Center. Fenomenologia del nuovo latinorum, La lingua agra del giovane scrittore atipico e infine L’italiano di oggi tra norma e uso.

 

[1] Forma linguistica scorretta; improprietà morfologica, sintattica o lessicale; errore di grammatica (fonte: Vocabolario online Treccani)

[2] https://www.leurispes.it/camilleri-come-verga-e-pirandello-il-vigatese-e-italiano-come-la-lingua-dei-malavoglia/