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O Capitano, mio Capitano!

Il professor Keating entra in classe per raccogliere le proprie cose e lasciare la scuola. Al suo posto, in quel momento, sta facendo lezione il preside, a cui è stata affidata la cattedra di Lettere in via provvisoria. Mentre Keating si avvicina alla porta per uscire, uno degli allievi si alza e urla: “Professor Keating, la prego deve credermi, ci hanno costretto a firmare!”. “Certo che ti credo, Todd.” Il preside intima al ragazzo di rimettersi a sedere e invita il professor Keating ad andarsene. Quest’ultimo esegue senza ribattere, ma prima che lui si chiuda la porta alle spalle, Todd sale sul banco e recita: “Capitano, mio Capitano!”, seguito a ruota da tutti gli altri allievi.

Se fino a “Todd sale sul banco e recita” non avevate ancora capito che si tratta della scena finale de L’attimo fuggente (1989), quasi sicuramente “Capitano, mio Capitano!” ve l’ha fatta riconoscere all’istante. Perché questo incipit? Perché oggi, per #traduzioneacolazione, vi serviamo O Capitano! Mio Capitano!, uno dei titoli di DieciXuno, nuova collana di Mucchi dedicata alla poesia. Sul sito della casa editrice leggiamo che si tratta della “prima collana che mette al centro la riflessione sulla traduzione poetica”. Ognuno dei “volumetti”, come li descrive l’editore stesso, conterrà una prima parte che ripercorrerà la tradizione traduttiva italiana relativa al componimento oggetto dell’analisi, e una seconda parte che metterà a confronto alcuni estratti delle dieci versioni della stessa poesia, che troveremo poi riportate nella loro interezza alla fine del libretto.

“O Capitano! Mio Capitano!”, inclusa nella raccolta Foglie d’erba, è la famosa poesia dello statunitense Walt Whitman (classe 1819), il primo a servirsi del verso libero per esprimere i concetti senza incasellarli in schemi fissi. Franco Nasi, curatore del volume, ci spiega che la poesia fu scritta sulla scia dell’attentato al presidente Abraham Lincoln: quando, il 15 aprile del 1865, l’attore John Wilkes Booth lo uccide, Whitman rimane “sconvolto e senza parole”. Il componimento a cui darà vita per elaborare il lutto sarà toccante e suggestivo, grazie anche all’ampio uso di metafore legate al mare, in cui l’immagine archetipica della nave la fa da padrona:

O Captain! my Captain! our fearful trip is done,
The ship has weather’d every rack, the prize we sought is won,
The port is near, the bells I hear, the people all exulting,
While follow eyes the steady keel, the vessel grim and daring;
But O heart! heart! heart!
O the bleeding drops of red,
Where on the deck my Captain lies,
Fallen cold and dead.

 

O Captain! my Captain! rise up and hear the bells;
Rise up—for you the flag is flung—for you the bugle trills,
For you bouquets and ribbon’d wreaths—for you the shores a-crowding,
For you they call, the swaying mass, their eager faces turning;
Here Captain! dear father!
This arm beneath your head!
It is some dream that on the deck,
You’ve fallen cold and dead.

 

My Captain does not answer, his lips are pale and still,
My father does not feel my arm, he has no pulse nor will,
The ship is anchor’d safe and sound, its voyage closed and done,
From fearful trip the victor ship comes in with object won;
Exult O shores, and ring O bells!
But I with mournful tread,
Walk the deck my Captain lies,
Fallen cold and dead.

Le traduzioni italiane presenti nella pubblicazione di Mucchi Editore sono quelle dal 1907 in poi: Luigi Gamberale (1908), Antonio Agresti (1913), V.V.S. (autore anonimo, 1932), Enzo Giachino (1950), Franco De Poli (1967), Ariodante Marianni (1988), Antonio Troiano (1990), Giuseppe Conte (1991), Mario Corona (2017), e infine lo stesso Franco Nasi (2019). Tra le osservazioni più curiose che ritroviamo nel volume, vale la pena citare quelle di Gamberale e V.V.S., i quali, in fase di traduzione, riscontrarono entrambi i limiti della scrittura di Whitman: “l’uso maldestro della punteggiatura o continuo dei gerundi, l’ellissi del verbo o le innumerevoli parentesi, la creazione di neologismi o parole che non si ritrovano in alcun dizionario, e delle quali stentarono a dar conto colti americani, interrogati da noi in proposito.”

Lasciamo a voi il gusto di scoprire le differenze fra le varie versioni, e riguardo alla difficoltà che i traduttori possono aver affrontato, vi riportiamo solo ciò che Whitman scrisse di sé in Song of Myself (Canto di me stesso – Foglie d’erba):

You will hardly know what I mean
I too am untranslatable
(Voi quasi non saprete cosa io intenda dire
Io sono intraducibile)

Non certo incoraggiante, come premessa.