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Oltre l'Occidente

Oltre l’Occidente – Traduzione e alterità culturale

Oggi #traduzioneacolazione vi porterà in giro per il mondo, quindi allacciate le cinture e disponetevi all’ascolto. Si parte! Destinazione: Oltre l’Occidente- Traduzione e alterità culturale.

Il testo che vi presentiamo non è recente, ma a nostro avviso molto attuale. Se c’è una cosa che il 2020 ci ha ricordato, è quanto siamo intercollegati, oltre che connessi. Un minuscolo virus partito dalla Cina si è diffuso a livello globale, così come l’uccisione di George Floyd negli Stati Uniti ha acceso il dibattito sul razzismo in tutto il mondo. Per certi aspetti il libro che vi presentiamo oggi, sebbene risalga al 2009, contiene interessanti teorie di studiose e studiosi che cercano di spiegare la complessità del mondo in cui viviamo attraverso la lente della traduzione, partendo da prospettive molto diverse e fornendo così spunti di riflessione anche al lettore contemporaneo.

Oltre l’Occidente è un’antologia di tredici saggi, più la sintesi finale di Siri Neergard, scritti dal 1992 al 2007, da autori di origini non occidentali che portano il proprio punto di vista sulla traduzione intesa come un terreno di “incontro e scontro” culturale prima ancora che linguistico, come strumento di formazione e, talvolta, di manipolazione delle identità. Come si legge nel saggio conclusivo di Siri Neergard, “ogni traduzione è condizionata dal potere o dall’ideologia, nessuna traduzione è neutra o innocente”. Approfondire il punto di vista di studiosi non occidentali implica cambiare prospettiva e andare “oltre” quella occidentale dominante. Significa passare dalla “pretesa di parlare per gli altri”, al riconoscere a soggettività non occidentali il diritto di autorappresentarsi e di riappropriarsi della narrazione. Per riuscirci, occorre passare dal concetto di “traduzione di culture” a quello di “traduzione culturale” che non riguarda solo i soggetti migranti e post-coloniali, ma tutti quanti. La nostra società è sempre più fluida, così come la traduzione, che oscilla talvolta tra diverse lingue dando vita a testi ibridi in cui è sempre più difficile distinguere tra “noi” e “loro” e nei quali il concetto di “diversità tra mondi” viene sostituito da quello “diversità nel mondo”.

La raccolta è suddivisa in due sezioni. La prima, “Oltre l’Occidente”, riunisce le voci di autori che vivono e operano in Asia, Africa e America del Sud, mentre la seconda, “Tra Occidente e Alterità”, ospita i contributi di studiosi che vivono e lavorano a cavallo tra i cosiddetti Oriente e Occidente. Ognuno di questi saggi meriterebbe un approfondimento a parte, qui daremo una sbirciatina ad alcune delle finestre che si spalancano leggendoli.

Chang Nam Fung ed Eva Hung descrivono la realtà della traduzione culturale in Cina come strumento di manipolazione ideologica e politica. In particolare, le traduzioni in cinese della narrativa occidentale risultano artificiali per ricordare al lettore che si tratta di una traduzione e di una cultura “altra”. Allo stesso modo, le traduzioni verso l’inglese a opera di accademici cinesi rispondono a esigenze di propaganda e a supporto del nazionalismo cinese, ma risultano poco naturali. Infatti, a differenza dei traduttori dell’epoca classica, per lo più missionari, che favorirono la diffusione del Buddismo in Cina, non adottano l’approccio collaborativo. I missionari, pur traducendo verso la lingua straniera, non solo erano esperti della materia e del contesto di arrivo, ma si avvalevano anche della collaborazione di madrelingua e bilingui.

Altrettanto interessante è l’analisi condotta da Harish Trivedi della traduzione culturale in India dove è stata un potente strumento di colonizzazione, inizialmente attraverso la trasposizione in inglese di documenti giuridici per governare gli indiani secondo le loro stesse leggi e trasformarli in brown Englishmen. Tuttavia, la traduzione dal sanscrito di testi sacri come la Bhagavadgita, se pure adattati per mettere in luce soltanto aspetti funzionali alla colonizzazione, ha determinato, da un lato un crescente interesse per l’esotismo in Europa da parte di intellettuali e scrittori come Goethe o Byron, e dall’altro la rinascita di uno spirito nazionalista indiano. Basti pensare che lo stesso Mahatma Gandhi lesse per la prima volta la Bhagavadgita nella versione inglese in versi, Song Celestial.

Se l’Impero britannico promuoveva un governo indiretto delle colonie, permettendo l’apprendimento anche delle lingue locali, la Francia puntava a una politica di assimilazione per trasformare i popoli colonizzati in cittadini francesi, scoraggiando quindi l’apprendimento delle lingue indigene. Pertanto, gli scrittori nordafricani francofoni hanno dovuto fare i conti con un bilinguismo e un biculturalismo imposti che non potevano non riverberarsi nella loro scrittura. Costretti a scrivere nella lingua del colonizzatore per far giungere le proprie istanze a un pubblico più vasto, hanno iniziato a “a fare musica africana con la lingua francese”, dando vita a una bi-lingua che costringe così il lettore a provare la loro condizione di doversi costantemente auto-tradurre.

In Brasile, invece, prende vita una delle teorie più radicali e interventiste: l’Antropofagia, ideata da Haroldo de Campos. Questa teoria consiste nel superamento della dicotomia tra testo fonte e di arrivo, attraverso un processo di “cannibalizzazione” che porta al “patricidio” dell’originale e alla transcreazione. La traduzione non è più a senso unico, ma diventa un’operazione transculturale a doppio senso, un modo per riappropriarsi della tradizione locale. Il traduttore si trasforma in ricreatore e la traduzione assume connotati carnali, quasi diabolici, diventa trasfusione e transluciferazione.

Altrettanto affascinanti sono i concetti di traduzione densa e di traduzione come passerella tra culture descritti da Kwame Anthony Appiah e Albert Bensoussan. La prima, esposta da Appiah, ha lo scopo di arricchire la traduzione con elementi paratestuali, come note e spiegazioni, che consentano al lettore di avere una comprensione profonda e non mediata del contesto, affinché sviluppi un genuino rispetto per “la varietà di vita umana nelle diverse culture”. Bensoussan concepisce, invece, la traduzione come un ponte tra culture il cui scopo non è la perfezione formale, ma l’“impresa meravigliosa di far parlare un autore in un’altra lingua”. Per riuscirci non si può non tenere conto dello scopo dell’opera, così come dei rapporti, spesso asimmetrici, esistenti tra popoli e culture, giungendo, nel migliore dei casi, a un compromesso.

Uno dei contributi più toccanti della seconda sezione è quello di Jhumpa Lahiri, scrittrice di origini indiane, nata in Inghilterra e cresciuta negli Stati Uniti. In questo saggio la traduzione passa da una dimensione accademica a una via via più personale e intima. Lahiri evidenzia le difficoltà di vivere nello spazio intermedio tra più culture, una condizione ridotta allo sterile acronimo di ABCD (desi nata in America e confusa), coniato per riferirsi a indiani di prima e seconda generazione residenti in America. Per Lahiri la traduzione non è soltanto un atto linguistico, ma una battaglia per mantenere vive le tradizioni familiari in un mondo estraneo. Nella frase “traduco, dunque sono” alla fine del saggio è evidente che la traduzione diventa per lei uno strumento per recuperare la propria identità, non un modo per sopravvivere nel mondo, ma per crearne uno che non esiste.

Questi sono soltanto piccoli assaggi di ciò che troverete nella raccolta che è stata resa possibile grazie al lavoro delle curatrici Rosa Maria Bollettieri Bosinelli ed Elena Di Giovanni e dei professionisti che non solo hanno tradotto gratuitamente i saggi, ma li hanno anche commentati, offrendo così ulteriori spunti di riflessione al lettore.

Se vi abbiamo incuriosito, non vi resta che approfondire. Buona lettura!

 

Ringraziamo Ilenia Gradinello, che ha scritto per noi questo articolo.