fbpx
Tradurre la scortesia

Tradurre la (s)cortesia

Uno degli aspetti a cui dobbiamo stare più attenti quando traduciamo e adattiamo Hell’s Kitchen USA è il turpiloquio. Gli insulti devono essere edulcorati il più possibile, al punto che ormai le stagioni più recenti del reality show americano non sono nemmeno lontanamente paragonabili alle prime, che avevano fatto la fortuna del programma proprio per la fantasia con cui Gordon Ramsay insultava e denigrava gli chef in gara.

Perché parliamo di turpiloquio se il titolo del saggio che vi suggeriamo oggi per #traduzioneacolazione si intitola “La cortesia – Aspetti culturali e problemi traduttivi”? Perché all’interno si trova un intero capitolo dedicato anche agli insulti nei prodotti audiovisivi, e perché nel nostro lavoro di dialoghisti i problemi traduttivi riguardano in misura nettamente maggiore la gestione delle parolacce che quella dei complimenti. In questo volume edito dalla Pisa University Press, l’autrice Silvia Bruti distingue insulti espliciti, insulti razziali, insulti impliciti e il cosiddetto banter, cioè un insieme di espressioni normalmente ritenute offensive ma che non vengono percepite come tali perché scambiate fra amici, fratelli e persone tra cui c’è una certa confidenza. In altre parole, una “falsa scortesia”. Quando traduciamo e adattiamo prodotti audiovisivi, la nostra attenzione è incentrata quasi esclusivamente sugli insulti espliciti e su quelli razziali.

L’enciclopedia Treccani definisce gli insulti come “parole ed espressioni cui si ricorre entro atti linguistici destinati a colpire e offendere l’interlocutore.” Per riuscirci, cioè per offendere l’interlocutore, devono essere ritenuti ingiuriosi sia da colui che insulta sia dall’insultato, i quali devono perciò condividere uno stesso sistema di valori. Insultare significa violare un tabu, andare oltre un confine socialmente accettato.

I tabu che nella traduzione audiovisiva di un reality show non dovrebbero essere violati sono quelli relativi alla sfera sessuale e religiosa, ma non sono rari nemmeno gli inviti a bypassare argomenti come l’alcol e la violenza sugli animali: quando Gordon Ramsay in inglese dice che l’agnello che gli hanno servito è talmente crudo che corre ancora felice sui prati, in italiano la battuta deve essere necessariamente modificata per evitare di urtare la sensibilità di alcuni spettatori. I limiti entro i quali muoversi durante l’adattamento di un prodotto audiovisivo sono determinati dalla linea editoriale del canale che lo trasmette, motivo per cui esistono reality show o factual in cui invece le parolacce non vengono omesse.

Edulcorare un insulto non sarebbe un problema, se non fosse che la sua forza illocutiva è determinata anche dal tono della voce e da elementi cinesici come i gesti e le espressioni del viso: in quest’ultimo caso non è raro assistere a uno “scollamento” tra la traduzione, influenzata dai paletti imposti dal cliente, e ciò che si vede a video, ovvero una persona visibilmente alterata. Questo fenomeno si riscontra ovviamente solo nei prodotti adattati in simil-sync (sincronismo ritmico non labiale) e in voice over, nei quali non si rispetta il movimento delle labbra dei personaggi ma solo la lunghezza delle battute. Il discorso è diverso per i film, e quindi per l’adattamento in lip-sync (sincronismo ritmico labiale), in cui il labiale riveste invece un’importanza fondamentale e il linguaggio deve per forza rispecchiare l’espressività di un personaggio: qui la tendenza non è certamente quella di infarcire i dialoghi di parolacce ed espressioni offensive, ma nemmeno di censurarle a tutti i costi.

Prendendo in esame film come Billy Elliot, Sognando Beckam, Sliding Doors, Crash e Dead Man Walking, l’autrice del saggio analizza le strategie impiegate per rendere gli insulti, soffermandosi sul contesto in cui si svolge l’azione per spiegare le scelte fatte dai dialoghisti. Un capitolo molto interessante è quello dedicato all’allocuzione, cioè l’atto di enunciazione con cui l’emittente si rivolge al destinatario: mentre l’inglese è ormai attestato sull’uso esclusivo di you e lascia che i rapporti fra gli interlocutori vengano definiti da vocativi, l’italiano distingue ancora tra tu e lei, avvalendosi inoltre anche del voi (ormai caduto in disuso se non in alcuni regioni dell’Italia centro-meridionale) quando si tratta di tradurre dall’inglese dialoghi di film in costume, scelta che spesso viene fatta per inerzia, senza considerare davvero il periodo storico e le norme d’uso vigenti al tempo.

Se vi abbiamo incuriosito vi invitiamo, ovviamente con tutta la gentilezza del caso, a considerare la lettura integrale del saggio di Silvia Bruti, professoressa di Lingua e Traduzione inglese presso il Dipartimento di Filologia, Letteratura e Linguistica dell’Università di Pisa.