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Il luogo della parola – Traduzione e decolonizzazione dello sguardo

Oggi #traduzioneacolazione vi propone di esplorare Il luogo della parola di Djamila Ribeiro edito da Capovolte nella collana Intersezioni e tradotto da Monica Paes.

Intersezioni è uno spazio dedicato alle voci del femminismo internazionale, soprattutto a quelle che in Italia non sono ancora tradotte, da una prospettiva intersezionale che contempla e indaga forme di oppressione che si intersecano e si moltiplicano.

La prima perla della collana è il saggio di Djamila Ribeiro, una filosofa brasiliana le cui opere si concentrano sul femminismo nero, sul razzismo e sull’empowerment femminile. I suoi testi hanno un carattere didattico e volto alla democratizzazione della cultura.

Analizzando il pensiero di figure storiche del femminismo come Simone de Beauvoir, Léila Gonzalez, Angela Devis e pensatrici contemporanee, Ribeiro si focalizza sulla posizione critica della donna nera, “l’altro dell’altro”, che è ai margini sia del dibattito sul razzismo, sia di quello sul femminismo. Questa riflessione non mira a creare scissioni, ma a ragionare in termini di oppressioni multiple per pensare a un modello di società più equo e paritario.

Quest’opera nasce in Brasile, Paese che ha vissuto la colonizzazione e la schiavitù. La traduzione, come abbiamo già visto nel post su Oltre l’Occidente, è stata uno strumento potente di colonizzazione prima e di decolonizzazione poi. In particolare, il Brasile fu colonizzato dal Portogallo ed ebbe sempre un rapporto conflittuale con la lingua ereditata perché considerata meno prestigiosa rispetto a quelle di centri europei ritenuti poli di produzione culturale. Da qui la “creolizzazione” della lingua portoghese come operazione di rottura e di recupero della propria identità. Non si può poi dimenticare che durante il romanticismo le traduzioni della letteratura e dei feuelletons francesi, affrontate con timore quasi reverenziale nei confronti dell’originale, influenzarono non poco i gusti e la produzione letteraria brasiliani.

Il luogo della parola offre uno spunto di riflessione sul ruolo che la traduzione può avere oggi nel processo di decolonizzazione dello sguardo. Nella Nota di traduzione corale emergono le principali criticità rilevate e le strategie adottate per affrontarle nel rispetto del contenuto e dell’intenzione del saggio. Qui scopriamo che le difficoltà sono sorte già dal titolo, Lugar de fala, la cui traduzione ha suscitato molti dubbi e infinite riflessioni. Si tratta infatti di un concetto diffuso nel pensiero filosofico in Brasile, dove esiste una vasta letteratura a riguardo, a differenza dell’Italia, dove i testi di riferimento non si traducono e di conseguenza stentano ad arrivare i concetti e mancano le parole per renderli. I traducenti presi in esame sono stati “spazio”, “posto” o “luogo”, scegliendo alla fine quest’ultimo perché da un lato nel testo si fa riferimento al “locus” sociale, inteso come luogo di provenienza e posizionamento dei soggetti e, dall’altro, perché richiama una connotazione socio-culturale.

Per quanto riguarda il resto del testo, si potrebbe dire che è stata adottata una traduzione densa, volta a fornire informazioni complementari che agevolino la comprensione di elementi che possono avere un effetto straniante per chi non conosce la cultura brasiliana. L’autrice cita molte opere che non esistono in un’edizione italiana, perciò, per chi non ha familiarità con il portoghese, o con l’inglese, è stata inserita una traduzione dei titoli tra parentesi quadre. All’interno del testo compaiono altre parentesi quadre che racchiudono l’acronimo NdT [Nota della Traduttrice] seguito da alcune riflessioni sul lessico, su espressioni tipiche e sulla cultura brasiliana. Scopriamo così ad esempio che Ori è “una parola della lingua yoruba che nel candomblé – culto afrobrasiliano – indica la divinità individuale che guida ogni persona da prima della nascita fino alla morte”.

Questo uso delle note potrebbe essere interpretato come una sconfitta della traduttrice che non è riuscita a trovare il giusto equivalente in italiano. Tuttavia, come spiega Gaetano Chiaruzzi nel suo articolo La nota del traduttore, spia della diversità, le note non dovrebbero esse intese come una scusa per la mancanza di fedeltà all’originale, né come un modo per giustificare le proprie scelte nei confronti dei colleghi. La nota, se destinata al lettore, acquista invece un grande valore aggiunto. Chi legge un testo tradotto lo fa come se questo fosse nato nella propria lingua, non conosce le differenze tra l’originale e la traduzione, e talvolta neanche tra le lingue di partenza e di arrivo. Il traduttore invece ne è ben consapevole e con le note comunica al lettore che questa differenza è “incommensurabile” e che c’è “un resto che non ha potuto entrare nel testo” perché una lingua non può essere completamente eguagliata all’altra.

La Nota del traduttore ci rende chiaro quale sia il compito etico di chi traduce: salvaguardare la differenza tra le lingue e valorizzarla, far capire che non esiste solo la nostra lingua e mostrare ciò che essa non può esprimere, ma che può comunque essere compreso.

Se a lungo si è pensato che la soluzione dei conflitti sociali potesse essere un’utopica lingua universale, Chiaruzzi ci ricorda che la traduzione ci insegna che la differenza non si può annullare, anzi va difesa perché non divide, ma unisce, stimolando il confronto e la conoscenza attraverso di esso.

Potete leggere l’intero articolo a questo indirizzo:

https://iris.unito.it/retrieve/handle/2318/156783/27923/La%20nota%20del%20traduttore

 

Ringraziamo Ilenia Gradinello, che ha scritto per noi questo articolo.