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Storiette e storiette tascabili

Quando si lavora con le parole e si legge per mestiere, possono capitare momenti in cui si inizia un libro, ma non si riesce a trovare la concentrazione giusta per terminarlo. In questi casi, per rinverdire il gusto per la lettura, può essere utile riprendere da racconti brevi, ancora meglio se si tratta di Storiette e Storiette tascabili, come quelle di Luigi Malerba. Per chi non lo conoscesse, Luigi Malerba, pseudonimo di Luigi Bonardi, è stato uno dei maggiori e più tradotti scrittori italiani del secondo Novecento e ha fatto parte della neoavanguardia sperimentalista del Gruppo 63 (https://www.treccani.it/enciclopedia/gruppo-63/). Il volume che vi proponiamo raccoglie storielle brevi e molto semplici che, come si legge nel risvolto di copertina, sono “esempi dell’inverosimile e acuta stupidità umana” raccontanti da Malerba con una comicità complice e benevola verso le figure eccentriche che ne sono protagoniste.

Vi starete chiedendo che cosa c’entra tutto questo con la traduzione. All’inizio non era nostra intenzione proporre il libro per la rubrica, tuttavia, man mano che ci addentravamo nel mondo surreale dipinto dall’autore, abbiamo incontrato alcune storie che hanno attirato la nostra attenzione e hanno stimolato un collegamento con la traduzione. Prendiamo per esempio Guerra, una storietta che ha per protagoniste le parole. Parole cattive che complottavano al buio per comparire molto in vista nelle prime pagine dei giornali e spianare la strada a una parola che preferiva restare nell’ombra fino al momento opportuno. Scoperto il complotto, le parole tranquille, abituate a dormire nelle biblioteche e ad apparire solo saltuariamente sui giornali, scritte in piccolo e nelle ultime pagine, decisero di opporsi alle parole cattive. Come? Lasciamo che siate voi a scoprirlo, leggendo la storia. Oppure potremmo fare l’esempio di Marione, che non sopportava che “tutte le cose fossero così confuse e mescolate l’una con l’altra”, così si mise a tavolino, prese un vocabolario e un paio di forbici e iniziò a separare le parole piane da quelle sdrucciole, i sostantivi dagli aggettivi e così via. Non vogliamo rovinarvi la sorpresa svelandovi se con questa tecnica Marione riuscì a mettere ordine nel mondo. Ma potremmo anche parlarvi di Ottorino, che collezionava parolacce così come si fa con figurine e francobolli, salvo poi subirne le conseguenze.

La storietta che però ci ha colpito di più e su cui vogliamo soffermarci è quella di Cesarino, che credeva che il passato remoto creasse tra lui e il mondo una lontananza incolmabile e ne aveva così paura che decise di non usarlo più, né a voce, né in forma scritta. Quando lo trovava nei libri, correggeva il testo usando il passato prossimo o l’imperfetto. Questa storia ci ha fatto pensare in particolare ai clienti della traduzione audiovisiva che ci chiedono espressamente di non usare il passato remoto, anche se gli eventi raccontati sono piuttosto lontani nel tempo, tranne nei casi in cui il passato prossimo risulterebbe davvero troppo forzato. Non vi nascondiamo che, quando la battuta è corta, questo limite ci costringe a un discreto esercizio di sintesi e rimpiangiamo la possibilità di cavarcela con un solo verbo. Il perché di questa scelta stilistica probabilmente è da ricercarsi nell’intenzione di ricalcare il linguaggio parlato per avvicinare il prodotto al pubblico che deve sentirsi partecipe della narrazione.

Come si legge in questo articolo dell’Accademia della Crusca (https://accademiadellacrusca.it/it/consulenza/sulluso-del-passato-remoto/126) «Usiamo il passato remoto per manifestare il distacco, e quindi la lontananza, di tali avvenimenti dal momento in cui ne parliamo. Dobbiamo perciò intendere remoto nel suo significato etimologico di “separato”, “staccato”, “rimosso”; e prossimo come indicante vicinanza o attualità psicologica». Chiaramente il contesto e le esigenze comunicative influenzano l’uso dei tempi verbali. Ad esempio, nella narrazione di eventi passati che non hanno relazione con il presente o con la psicologia di chi li narra, come può avvenire in un saggio storico o in una biografia, sarà più comune ricorrere al passato remoto o al presente storico.

Ma cosa succede in ambito letterario?

Traduzione e scrittura, il saggio che vi abbiamo proposto di recente, dedica ampio spazio a questo tema nel capitolo Viaggio, narrazione e forma. Qui vengono analizzati alcuni passaggi de l’Entranger di Camus e del primo romanzo di Daniele del Giudice, Lo stadio di Wimbledon. Entrambi i testi sono narrati in prima persona e presentano la particolare scelta degli autori di usare il passato prossimo al posto del tempo narrativo usuale, il passato remoto. Sartre, commentando la scelta di Camus, scrive «Ma non un presente indeciso che faccia macchia e si prolunghi un po’ sul presente che lo segue. La frase è netta, senza sbavature, chiusa in sé; è separata dalla frase successiva da un niente [ … ]. Tra ogni frase e la successiva il mondo si annulla e rinasce: la parola, appena sorge, è una creazione ex nihilo; una frase dello Straniero è un’isola. E noi ruzzoliamo di frase in frase, di nulla in nulla. È per accentuare la solitudine di ogni unità di frase che nella sua narrativa Camus ha scelto il passato prossimo. Il passato remoto è il tempo della continuità». Questa analisi viene però contestata da Harald Weinrich, secondo il quale Camus non aveva intenzione di dare il carattere di “isola” alle proprie frasi, tanto che per ricreare il flusso e la continuità impossibili da raggiungere con i tempi verbali, ha ripiegato sugli avverbi di tempo.

Sia nel testo di Camus sia in quello di del Giudice, l’uso del passato prossimo non si può spiegare soltanto come una scelta narrativa che riflette l’influenza del linguaggio parlato, perché svolge una funzione ben precisa. Come sostenuto da Sartre, il passato remoto è un tempo che crea continuità, ma segnala anche la finzione e comunica a chi legge che non fa parte del mondo narrato. Con il passato prossimo, invece, il mondo narrato e quello di chi scrive, e di chi legge, entrano in contatto. In testi narrati in prima persona, chi legge ha la sensazione di essere insieme all’io narrante mentre osserva la propria vita come in un film.

Il romanzo di del Giudice ha come tema l’avvicinamento graduale a una nuova realtà. Questo avvicinamento è scandito nello spazio di giornate che si concludono con il protagonista che si addormenta in treno.

Ecco un estratto della giornata finale che contiene una riflessione sul legame tra il mondo e chi lo osserva:

«Ho guardato fuori il faro, bianco e monumentale: si poteva immaginare la traiettoria di quel lampo fino agli occhi in mare, e come lì sarebbe stato riconosciuto dalla periodicità, dal tipo e dal colore della luce. Il navigante segue il faro calcolando continuamente la distanza; è un buon modo, credo, quello di avvicinarsi alle cose misurando sempre quanto se ne è lontani».

Come si può osservare dall’estratto, alla macrostruttura della trama scandita in giornate corrisponde la microstruttura della singola frase costruita attorno al verbo al passato prossimo che ricrea lo sguardo del protagonista, delimitato dall’aprirsi e chiudersi degli occhi.

Dopo tutto, la scelta di Cesarino di vivere senza il passato remoto non era poi così campata in aria.

Sperando che il post di oggi non risulti troppo pindarico, vi invitiamo a tenere Storiette e Storiette tascabili sul comodino per sfogliarle quando avrete bisogno di un po’ di leggerezza.

 

Ringraziamo Ilenia Gradinello, che ha scritto per noi questo articolo.